Non solo giornalisti. Non solo attivisti. Non solo artisti. Adesso anche gli sceneggiatori delle serie tv in Egitto non avranno più vita facile. Accade specialmente durante il Ramadan. Le controversie tra Stato e autori televisivi aumentano: i programmi sono in linea con la nostra idea di famiglia? Con la religione? Con la nostra tradizione? Riflettono la nostra società? Danno una buona immagine di noi all'estero?
Se la risposta è no, anche i programmi di intrattenimento vengono oscurati. Il dibattito è ricorrente e così ripetitivo al Cairo che la Corte Suprema egiziana per l'amministrazione dei media ha istituito qualche settimana fa un comitato speciale, solo per monitorare le serie tv e i telefilm, per censurare quelle che sono «contro i costumi e le tradizioni del Paese». La Corte Suprema egiziana per l'amministrazione dei media è stata formata ad aprile 2016, con un decreto presidenziale di Al Sisi, ed è autorizzata a sospendere o multare, temporaneamente o per sempre, i canali tv che vengono classificati come “immorali”.
Il comitato per le serie tv si è riunito il 3 gennaio, per comunicare ai dirigenti delle tv arabe del Nilo che sui loro canali non sarà autorizzata la messa in onda di alcuna produzione di finzione – film, serie tv, telefilm - che non rispetti il codice di condotta statale e che a dare il nulla osta sarà il Direttorato generale della censura dei lavori artistici, un corpo istituzionale dedito solo a leggere le sceneggiature delle fiction e dare il permesso di procedere.
Film, serie, pubblicità: non dovrà esserci nessuna «scena di violenza, droga, nessun cattivo esempio». Nel 2017 sono diversi i programmi tv che hanno chiuso i battenti, uno è scomparso dagli schermi degli egiziani solo perché parlava della difficoltà di trovare acqua pulita nel Paese. Anche parlare di sport in modi che lo Stato non gradisce è vietato: un comitato per monitorare i media dello sport è stato creato su misura per riportare al Consiglio Supremo tutto quello che si dice nelle trasmissioni sugli atleti.
Per il critico d'arte Tariq El Shennawi sotto la dicitura «sviluppare e migliorare le serie» c'è uno scopo preciso: avere controllo su ogni media, imporre una censura sempre maggiore. «Il Consiglio Supremo per l'amministrazione dei media vuole che l'arte e i lavori artistici si allineino alla politica dello Stato, alla natura conservatrice della comunità; col tempo il loro obiettivo segreto verrà rivelato: imporre la censura». La scrittrice Fatima Naoot ha detto che il comitato è un tentativo dello Stato di imporsi su arte e creatività, di ergersi nel ruolo «di padre del popolo egiziano: considerano gli egiziani come un bambino che va monitorato, così i suoi show vanno censurati».
Adesso Mohamed Fadel, a capo del comitato, ha cambiato idea. O almeno ne ha avuta un'altra. Ha deciso non solo di censurare gli altri, ma creare e trasmettere programmi propri, con serie tv che verranno pensate e girate in base ai valori del nuovo Egitto di Al Sisi.
Non solo giornalisti. Non solo attivisti. Non solo artisti. Adesso anche gli sceneggiatori delle serie tv in Egitto non avranno più vita facile. Accade specialmente durante il Ramadan. Le controversie tra Stato e autori televisivi aumentano: i programmi sono in linea con la nostra idea di famiglia? Con la religione? Con la nostra tradizione? Riflettono la nostra società? Danno una buona immagine di noi all’estero?
Se la risposta è no, anche i programmi di intrattenimento vengono oscurati. Il dibattito è ricorrente e così ripetitivo al Cairo che la Corte Suprema egiziana per l’amministrazione dei media ha istituito qualche settimana fa un comitato speciale, solo per monitorare le serie tv e i telefilm, per censurare quelle che sono «contro i costumi e le tradizioni del Paese». La Corte Suprema egiziana per l’amministrazione dei media è stata formata ad aprile 2016, con un decreto presidenziale di Al Sisi, ed è autorizzata a sospendere o multare, temporaneamente o per sempre, i canali tv che vengono classificati come “immorali”.
Il comitato per le serie tv si è riunito il 3 gennaio, per comunicare ai dirigenti delle tv arabe del Nilo che sui loro canali non sarà autorizzata la messa in onda di alcuna produzione di finzione – film, serie tv, telefilm – che non rispetti il codice di condotta statale e che a dare il nulla osta sarà il Direttorato generale della censura dei lavori artistici, un corpo istituzionale dedito solo a leggere le sceneggiature delle fiction e dare il permesso di procedere.
Film, serie, pubblicità: non dovrà esserci nessuna «scena di violenza, droga, nessun cattivo esempio». Nel 2017 sono diversi i programmi tv che hanno chiuso i battenti, uno è scomparso dagli schermi degli egiziani solo perché parlava della difficoltà di trovare acqua pulita nel Paese. Anche parlare di sport in modi che lo Stato non gradisce è vietato: un comitato per monitorare i media dello sport è stato creato su misura per riportare al Consiglio Supremo tutto quello che si dice nelle trasmissioni sugli atleti.
Per il critico d’arte Tariq El Shennawi sotto la dicitura «sviluppare e migliorare le serie» c’è uno scopo preciso: avere controllo su ogni media, imporre una censura sempre maggiore. «Il Consiglio Supremo per l’amministrazione dei media vuole che l’arte e i lavori artistici si allineino alla politica dello Stato, alla natura conservatrice della comunità; col tempo il loro obiettivo segreto verrà rivelato: imporre la censura». La scrittrice Fatima Naoot ha detto che il comitato è un tentativo dello Stato di imporsi su arte e creatività, di ergersi nel ruolo «di padre del popolo egiziano: considerano gli egiziani come un bambino che va monitorato, così i suoi show vanno censurati».
Adesso Mohamed Fadel, a capo del comitato, ha cambiato idea. O almeno ne ha avuta un’altra. Ha deciso non solo di censurare gli altri, ma creare e trasmettere programmi propri, con serie tv che verranno pensate e girate in base ai valori del nuovo Egitto di Al Sisi.