Nel Paese che fu la miccia delle primavere arabe nel 2011, per la rivoluzione del pane, a centinaia morirono nei primi giorni di lotta e in migliaia rimasero feriti. La democrazia che chiedevano è arrivata a piccolissime dosi, poi le riforme si sono interrotte del tutto. Oggi scendono di nuovo in piazza ma è altro che chiedono: vogliono che vengano riconosciuti i crimini commessi allora, in quel gennaio del 2011, che i sospetti che diedero l'ordine di attaccare e uccidere dei cittadini che manifestavano pacificamente oggi paghino per i loro crimini. Verità e giustizia. Aspettare ancora, sette anni dopo, specialmente a gennaio, per almeno trecento famiglie tunisine non è facile. Non c'è una lista finale dei colpevoli da impugnare, non c'è nessuno in cella, che ha pagato per quegli attacchi. Non c'è niente che faccia sperare nella legge che verrà fatta valere nei prossimi anni. Niente che faccia cerchiare una data ufficiale sul calendario per il riconoscimento ufficiale dei “ giovani morti della rivoluzione”. Ma, dicono le famiglie delle vittime, la Tunisia non raggiungerà mai un futuro migliore se non fa i conti con il suo peggiore passato.
Gli avvocati delle famiglie di chi perse la vita rendono noto che alcuni sono già stati indagati, altri arrestati e incriminati, ma poi sono stati liberati. Il governo non ha mai pubblicato una lista ufficiale dei tunisini che sono morti: si tratta di più di 300 giovani che, marciando per le strade del paese, diedero la vita per la battaglia che si credeva di potere vincere per la democrazia, contro Ben Ali. E ora un altro gennaio senza riconoscimento di quel sacrificio sta finendo: sono gli ultimi giorni del primo mese d'inverno nel paese del Magreb, dove sono soprattutto le madri ad attendere giustizia.
«So chi ha ucciso mio figlio e non lo perdonerò mai. Non c'è giustizia in Tunisia» ha detto Om Saad, una donna il cui figlio 23enne è stato colpito a morte dalle pallottole di un poliziotto che conosceva il ragazzo fin da bambino e lo ha ferito letalmente a pochi passi da casa, ad Ettadhamen, nella periferia della capitale tunisina. Le famiglie delle vittime non hanno mai ricevuto l'aiuto - psicologico, finanziario, pratico ed economico - che gli era stato promesso. Non i tribunali civili, ma quelli militari si occupano di chi commise le uccisioni. Anche se l'assassino del figlio di Om è stato condannato con una sentenza di venti anni di carcere, è riuscito comunque, dopo cinque anni, ad uscire per buona condotta e ora cammina libero per strada.
Uno degli avvocati che si occupa dei diritti umani delle famiglie vittima del regime di Ben Ali dice che l'esperienza di Om Saad non è unica, ma comune, solita. «Anche questo governo, il partito del presidente sono contro la rivoluzione, nella rivoluzione non hanno mai creduto» ha dichiarato il legale Charfeddine Kellil, che ha denunciato che anche l'ultima persona che rimaneva in prigione, accusata delle morti del 2011, proprio nel mese del settimo anniversario delle proteste, è stata liberata: «È un insulto alle famiglie dei morti», che sono di nuovo in strada «per proteggere la rivoluzione».
Questo è solo un altro tragico evento della Tunisia post 2011. Yamina Zoghlami, membro del Parlamento, ha fatto parte della commissione che avrebbe dovuto stilare la lista finale dei “martiri della libertà”, di tutti i ragazzi che hanno perso la vita e sono stati gravemente feriti in quei giorni di gennaio. La commissione è stata creata con il decreto legge 97-2011, emendata nel 2012 e 2013, e si chiama ufficialmente Commissione dei martiri e feriti della rivoluzione, creata dall'Alto commissariato per i diritti umani e libertà fondamentali.
Nonostante la prima parte del lavoro sia stata completata, dopo un lungo lavoro di ricerca compiuto nel 2016, il governo ha bloccato la pubblicazione dell'elenco con una scusa: attendere la lista dei feriti, così da pubblicarla insieme a quella dei defunti. Ma la Zoghlami ammette che è solo un alibi di natura politica: il governo sa che riaccenderebbe subito le proteste di strade e piazze in questo modo e «hanno paura che la violenza eromperà in luoghi pubblici con la pubblicazione, perché il numero di morti nella lista è stato ridotto» rispetto all'inizio, ha detto la parlamentare, che ha aggiunto che il governo deve trovare un equilibrio tra la verità e la paura che il paese torni ad essere risucchiato in una spirale di violenza. La paura che la Tunisia finisca «come le altre primavere arabe, in Siria e Libia. Ecco perché si affrettano a dimenticare il passato».
Il governo aveva promesso di pubblicare questa lista il 14 gennaio, ma ha rimandato ancora una volta, fino al prossimo marzo. Quella lista per i tunisini vuol dire fare i conti con la storia, con la rivoluzione e con sé stessi. «Innalzeremo monumenti, scriveremo quei nomi nei libri di storia, perché questa è la legge, quella per cui abbiamo combattuto». Quella per cui sono morti.
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Per approfondire: La rivoluzione rubata a Tunisi (di Roberto Prinzi)
Le fonti di questo articolo sono tratte dal Guardian, Allafrica, Tap, New York Times, Trt World e France24
Nel Paese che fu la miccia delle primavere arabe nel 2011, per la rivoluzione del pane, a centinaia morirono nei primi giorni di lotta e in migliaia rimasero feriti. La democrazia che chiedevano è arrivata a piccolissime dosi, poi le riforme si sono interrotte del tutto. Oggi scendono di nuovo in piazza ma è altro che chiedono: vogliono che vengano riconosciuti i crimini commessi allora, in quel gennaio del 2011, che i sospetti che diedero l’ordine di attaccare e uccidere dei cittadini che manifestavano pacificamente oggi paghino per i loro crimini. Verità e giustizia. Aspettare ancora, sette anni dopo, specialmente a gennaio, per almeno trecento famiglie tunisine non è facile. Non c’è una lista finale dei colpevoli da impugnare, non c’è nessuno in cella, che ha pagato per quegli attacchi. Non c’è niente che faccia sperare nella legge che verrà fatta valere nei prossimi anni. Niente che faccia cerchiare una data ufficiale sul calendario per il riconoscimento ufficiale dei “ giovani morti della rivoluzione”. Ma, dicono le famiglie delle vittime, la Tunisia non raggiungerà mai un futuro migliore se non fa i conti con il suo peggiore passato.
Gli avvocati delle famiglie di chi perse la vita rendono noto che alcuni sono già stati indagati, altri arrestati e incriminati, ma poi sono stati liberati. Il governo non ha mai pubblicato una lista ufficiale dei tunisini che sono morti: si tratta di più di 300 giovani che, marciando per le strade del paese, diedero la vita per la battaglia che si credeva di potere vincere per la democrazia, contro Ben Ali. E ora un altro gennaio senza riconoscimento di quel sacrificio sta finendo: sono gli ultimi giorni del primo mese d’inverno nel paese del Magreb, dove sono soprattutto le madri ad attendere giustizia.
«So chi ha ucciso mio figlio e non lo perdonerò mai. Non c’è giustizia in Tunisia» ha detto Om Saad, una donna il cui figlio 23enne è stato colpito a morte dalle pallottole di un poliziotto che conosceva il ragazzo fin da bambino e lo ha ferito letalmente a pochi passi da casa, ad Ettadhamen, nella periferia della capitale tunisina. Le famiglie delle vittime non hanno mai ricevuto l’aiuto – psicologico, finanziario, pratico ed economico – che gli era stato promesso. Non i tribunali civili, ma quelli militari si occupano di chi commise le uccisioni. Anche se l’assassino del figlio di Om è stato condannato con una sentenza di venti anni di carcere, è riuscito comunque, dopo cinque anni, ad uscire per buona condotta e ora cammina libero per strada.
Uno degli avvocati che si occupa dei diritti umani delle famiglie vittima del regime di Ben Ali dice che l’esperienza di Om Saad non è unica, ma comune, solita. «Anche questo governo, il partito del presidente sono contro la rivoluzione, nella rivoluzione non hanno mai creduto» ha dichiarato il legale Charfeddine Kellil, che ha denunciato che anche l’ultima persona che rimaneva in prigione, accusata delle morti del 2011, proprio nel mese del settimo anniversario delle proteste, è stata liberata: «È un insulto alle famiglie dei morti», che sono di nuovo in strada «per proteggere la rivoluzione».
Questo è solo un altro tragico evento della Tunisia post 2011. Yamina Zoghlami, membro del Parlamento, ha fatto parte della commissione che avrebbe dovuto stilare la lista finale dei “martiri della libertà”, di tutti i ragazzi che hanno perso la vita e sono stati gravemente feriti in quei giorni di gennaio. La commissione è stata creata con il decreto legge 97-2011, emendata nel 2012 e 2013, e si chiama ufficialmente Commissione dei martiri e feriti della rivoluzione, creata dall’Alto commissariato per i diritti umani e libertà fondamentali.
Nonostante la prima parte del lavoro sia stata completata, dopo un lungo lavoro di ricerca compiuto nel 2016, il governo ha bloccato la pubblicazione dell’elenco con una scusa: attendere la lista dei feriti, così da pubblicarla insieme a quella dei defunti. Ma la Zoghlami ammette che è solo un alibi di natura politica: il governo sa che riaccenderebbe subito le proteste di strade e piazze in questo modo e «hanno paura che la violenza eromperà in luoghi pubblici con la pubblicazione, perché il numero di morti nella lista è stato ridotto» rispetto all’inizio, ha detto la parlamentare, che ha aggiunto che il governo deve trovare un equilibrio tra la verità e la paura che il paese torni ad essere risucchiato in una spirale di violenza. La paura che la Tunisia finisca «come le altre primavere arabe, in Siria e Libia. Ecco perché si affrettano a dimenticare il passato».
Il governo aveva promesso di pubblicare questa lista il 14 gennaio, ma ha rimandato ancora una volta, fino al prossimo marzo. Quella lista per i tunisini vuol dire fare i conti con la storia, con la rivoluzione e con sé stessi. «Innalzeremo monumenti, scriveremo quei nomi nei libri di storia, perché questa è la legge, quella per cui abbiamo combattuto». Quella per cui sono morti.
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Per approfondire: La rivoluzione rubata a Tunisi (di Roberto Prinzi)
Le fonti di questo articolo sono tratte dal Guardian, Allafrica, Tap, New York Times, Trt World e France24