Sempre più precario, senza tutele, il lavoro in Italia è drammaticamente sfuggente. Aumentano i contratti a tempo determinato, a part-time involontario, a progetto, a rimborso di scontrini, aumenta il lavoro povero e perfino gratuito. È un dilagare di contratti a chiamata e di micro-occupazioni. Che impongono di mettere a valore anche il proprio privato, i rapporti, tutte le proprie risorse, fisiche ed emotive. Perché la flessibilità è diventata una giungla di liane che si spezzano. Perché i livelli di sfruttamento e la pretesa di una disponibilità assoluta e totale da parte del lavoratore evocano scenari di nuove schiavitù. In questa congiuntura il tempo libero dal lavoro praticamente non esiste più e con esso la possibilità di dedicarsi a esigenze di vita più profonde, agli affetti, allo studio, all’arte. In estrema sintesi, alla realizzazione di sé nel rapporto con gli altri. A denunciarlo in modo articolato è il docente di economia politica Andrea Ventura, autore de Il flagello del neoliberismo (L’Asino d’oro edizioni) ma - su questo nuovo numero di Left - anche il segretario della Cgil Toscana Maurizio Brotini, segno che anche il sindacato avverte sempre più l’urgenza di ripensare il lavoro rimettendo al centro la persona nella sua complessità, alla luce di una nuova antropologia, lontana dalla narrazione tossica imposta dal neoliberismo incentrato sul modello dell’Homo oeconomicus, tutto teso alla massimizzazione del profitto, povero d’affetti, e senza scrupoli nello sfruttamento degli altri, ridotti a nuovi schiavi. Come gli operai che lavorano per il mercato del lusso e della moda raccontati nell’inchiesta di Sara Capolungo. Di fronte all’accelerazione imposta dalla globalizzazione e all’impatto ambientale del turbo capitalismo, in una società sempre più contrassegnata da diseguaglianze e ingiustizia, la sinistra non può sottrarsi alla sfida di ripensare un tema come quello del lavoro. Proponendo modelli alternativi di sviluppo. Lottando per i diritti di chi il lavoro non ce l’ha, per condizioni più umane di lavoro, ma anche per il diritto a un tempo di “non lavoro”, quello che Marx chiamava tempo liberato, con bella intuizione, che poi però rimase tale. In Italia, per portare avanti questa battaglia, abbiamo già un fondamentale strumento: la Carta costituzionale, che tratteggia una moderna Repubblica fondata sul lavoro. Ma non solo. Pensiamo per esempio all’articolo 3 e in particolare al secondo comma dove è scritto che la Repubblica è chiamata a rimuovere gli ostacoli al «pieno sviluppo della persona umana». Articolo lungimirante e rivoluzionario. Ma aspetta ancora una piena applicazione. La ricostruzione della sinistra può ripartire da qui e chiede un progetto di ampio respiro, che va ben oltre il 4 marzo. Con questo non vogliamo incoraggiare l’astensione. Tutt’altro. Così, dopo aver dedicato la storia di copertina alla scuola e al carcere, abbiamo chiesto alle forze politiche che si presentano alle elezioni di argomentare le proprie proposte sul tema del lavoro. L’abolizione della riforma Fornero e del Jobs act, il ripristino dell’articolo 18, sono punti dirimenti, a nostro avviso. Su questo numero Simone Fana ricostruisce puntualmente il quadro dei danni provocati dal provvedimento renziano. Che oltre a Potere al popolo anche Liberi e uguali punti il dito contro il Jobs act, ci pare un segnale importante. Vi leggiamo la volontà di una salda collocazione a sinistra della nuova formazione politica guidata da Grasso. In cui, tuttavia, militano molti esponenti politici che votarono quel provvedimento in Aula. Quando nel novembre scorso Roberto Speranza, ex capogruppo del Pd alla Camera, in qualità di segretario di Mdp è andato a fare volantinaggio davanti alle fabbriche dell’Fca di Melfi è stato accolto con queste parole dai lavoratori: «Si trovi un lavoro dignitoso». Beninteso, cambiare idea è legittimo. E in questo caso auspicato. Ma la credibilità passa anche attraverso l’analisi argomentata dei propri errori. Non si può far finta di non avere un passato. Purtroppo come dimostra l’ossimorica lista Bonino-Tabacci il trasformismo è un male annoso della politica italiana di lungo corso, attaccata alla poltrona. Fare domande puntuali e stringenti, pretendere chiarezza anche sulle future alleanze, a poche settimane dal voto, ci appare quanto mai cruciale. Insisteremo. [su_divider style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]

L'editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola

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Sempre più precario, senza tutele, il lavoro in Italia è drammaticamente sfuggente. Aumentano i contratti a tempo determinato, a part-time involontario, a progetto, a rimborso di scontrini, aumenta il lavoro povero e perfino gratuito. È un dilagare di contratti a chiamata e di micro-occupazioni. Che impongono di mettere a valore anche il proprio privato, i rapporti, tutte le proprie risorse, fisiche ed emotive. Perché la flessibilità è diventata una giungla di liane che si spezzano. Perché i livelli di sfruttamento e la pretesa di una disponibilità assoluta e totale da parte del lavoratore evocano scenari di nuove schiavitù. In questa congiuntura il tempo libero dal lavoro praticamente non esiste più e con esso la possibilità di dedicarsi a esigenze di vita più profonde, agli affetti, allo studio, all’arte. In estrema sintesi, alla realizzazione di sé nel rapporto con gli altri.

A denunciarlo in modo articolato è il docente di economia politica Andrea Ventura, autore de Il flagello del neoliberismo (L’Asino d’oro edizioni) ma – su questo nuovo numero di Left – anche il segretario della Cgil Toscana Maurizio Brotini, segno che anche il sindacato avverte sempre più l’urgenza di ripensare il lavoro rimettendo al centro la persona nella sua complessità, alla luce di una nuova antropologia, lontana dalla narrazione tossica imposta dal neoliberismo incentrato sul modello dell’Homo oeconomicus, tutto teso alla massimizzazione del profitto, povero d’affetti, e senza scrupoli nello sfruttamento degli altri, ridotti a nuovi schiavi. Come gli operai che lavorano per il mercato del lusso e della moda raccontati nell’inchiesta di Sara Capolungo. Di fronte all’accelerazione imposta dalla globalizzazione e all’impatto ambientale del turbo capitalismo, in una società sempre più contrassegnata da diseguaglianze e ingiustizia, la sinistra non può sottrarsi alla sfida di ripensare un tema come quello del lavoro. Proponendo modelli alternativi di sviluppo. Lottando per i diritti di chi il lavoro non ce l’ha, per condizioni più umane di lavoro, ma anche per il diritto a un tempo di “non lavoro”, quello che Marx chiamava tempo liberato, con bella intuizione, che poi però rimase tale. In Italia, per portare avanti questa battaglia, abbiamo già un fondamentale strumento: la Carta costituzionale, che tratteggia una moderna Repubblica fondata sul lavoro. Ma non solo.

Pensiamo per esempio all’articolo 3 e in particolare al secondo comma dove è scritto che la Repubblica è chiamata a rimuovere gli ostacoli al «pieno sviluppo della persona umana». Articolo lungimirante e rivoluzionario. Ma aspetta ancora una piena applicazione. La ricostruzione della sinistra può ripartire da qui e chiede un progetto di ampio respiro, che va ben oltre il 4 marzo. Con questo non vogliamo incoraggiare l’astensione. Tutt’altro. Così, dopo aver dedicato la storia di copertina alla scuola e al carcere, abbiamo chiesto alle forze politiche che si presentano alle elezioni di argomentare le proprie proposte sul tema del lavoro. L’abolizione della riforma Fornero e del Jobs act, il ripristino dell’articolo 18, sono punti dirimenti, a nostro avviso. Su questo numero Simone Fana ricostruisce puntualmente il quadro dei danni provocati dal provvedimento renziano. Che oltre a Potere al popolo anche Liberi e uguali punti il dito contro il Jobs act, ci pare un segnale importante. Vi leggiamo la volontà di una salda collocazione a sinistra della nuova formazione politica guidata da Grasso. In cui, tuttavia, militano molti esponenti politici che votarono quel provvedimento in Aula.

Quando nel novembre scorso Roberto Speranza, ex capogruppo del Pd alla Camera, in qualità di segretario di Mdp è andato a fare volantinaggio davanti alle fabbriche dell’Fca di Melfi è stato accolto con queste parole dai lavoratori: «Si trovi un lavoro dignitoso». Beninteso, cambiare idea è legittimo. E in questo caso auspicato. Ma la credibilità passa anche attraverso l’analisi argomentata dei propri errori. Non si può far finta di non avere un passato. Purtroppo come dimostra l’ossimorica lista Bonino-Tabacci il trasformismo è un male annoso della politica italiana di lungo corso, attaccata alla poltrona. Fare domande puntuali e stringenti, pretendere chiarezza anche sulle future alleanze, a poche settimane dal voto, ci appare quanto mai cruciale. Insisteremo.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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