I drammatici fatti di Macerata richiamano alla memoria una vicenda simile accaduta sempre nelle Marche, a Fermo, a 40km dal capoluogo: l'omicidio del 36enne nigeriano Emmanuel Chidi Namdi, picchiato a morte da Amedeo Mancini, ultrà vicino ad ambienti fascisti. Era il 5 luglio del 2016. Alcuni mesi fa Angelo Ferracuti è tornato nelle strade di Fermo dove si è consumata la tragedia, palcoscenico di una provincia smarrita che si aggrappa all’intolleranza per trovare una identità

Vent’anni fa, mentre stavo scrivendo Attenti al cane, un romanzo a cornice, non pensavo che la provincia vera e marchigiana di Fermo, così profondamente distante dai centri, ancora claustrofobica, potesse diventare molto simile a quella descritta in quel libro. Periferie desolate, nelle quali viveva un’universale classe media immersa nella violenza e la solitudine di quartieri anonimi dove stava finendo la civiltà comunitaria. Ferrovieri con mogli depresse e figli tossici, gente che perdeva il lavoro da un momento all’altro, mentre sugli schermi televisivi di quei tinelli rabbuiati andavano in onda altre tragedie, le guerre lontane e la pulizia etnica, la resistenza cecena e l’Afghanistan.

La cosa che sgomenta è come ormai la maggior parte della gente si sia completamente adattata a stili di vita da provincia americana profonda, l’umanità inquieta e perduta dei racconti di Carver o di Richard Ford, che in quel libro cercavo di spostare nel mio piccolo mondo. Gente talmente assuefatta alle merci e alla tv spazzatura, da non rendersi più nemmeno conto della mostruosa normalità in cui si sono ficcate, ma alla quale le nuove destre hanno dato un nemico, lo straniero, il profugo, persone scappate da guerre, miserie e geografie saccheggiate dal capitalismo mondiale, sul quale scaricare le frustrazioni prodotte dalle nuove povertà create dalla crisi. Depredare globalmente e respingere localmente, questo è la missione del capitalismo occidentale. Con i fatti del 5 luglio del 2016 è come se quell’intuizione angosciosa si fosse tragicamente conclamata, come se il mondo globalizzato fosse arrivato anche a Fermo. Due anni prima un imprenditore uccise a colpi di pistola due carpentieri kosovari ai quali doveva salari arretrati, poi furono picchiati due lavoratori somali davanti a un bar, per non parlare delle bombe contro le parrocchie fermane e la Comunità di Capodarco, accusati di accogliere gli immigrati o di farne un mercato, orchestrati sempre da gente vicina alla curva della squadra locale. Quel 5 luglio Amedeo Mancini, un altro ultras confusamente fascistoide, 4 Daspo all’attivo, dopo una lite con Emmanuel Chidi Namdi e sua moglie Chinyere, colpì il ragazzo nigeriano uccidendolo, dopo aver apostrofato la moglie come “scimmia africana”. I due erano richiedenti asilo, cristiani scappati dalla Nigeria dopo l’assalto degli jihadisti di Boko Haram a una chiesa dove avevano perso i genitori e una figlia, e nella traversata drammatica dalla Libia fino a Palermo la donna aveva anche abortito un altro figlio in arrivo.

Da vittime iniziali, diventarono in poco tempo loro i provocatori nella narrazione strisciante della piccola città, soprattutto sui social network inveleniti, gli avvocati difensori consigliarono l’assassino di mostrarsi pentito e offrire la casa alla vedova, e invocarono la legittima difesa, mentre le gazzette di destra, “Libero” e “Il giornale” in testa, aggredivano il dibattito mediatico, spingendosi persino a dire che al funerale erano presenti esponenti della mafia nigeriana. Dopo il patteggiamento, quattro anni per omicidio a sfondo razziale, l’assassino finì agli arresti domiciliari, quindi a piede libero. Ormai la polvere era stata messa sotto il tappeto, l’onore della piccola città era salvo, il dibattito evitato, tanto che nessuna forza politica intervenne pubblicamente, a parte il “Comitato 5 luglio”, mentre la lista civica “Piazza pulita”, al governo della città, dal nome dichiaratamente localistico e post-ideologico, per codardia politica cercò di schivare la discussione abdicando alla magistratura. Anche qui come altrove il misto di consumismo e sottocultura hanno provocato negli ultimi 30 anni una ulteriore mutazione antropologica, seguita ai crolli delle ideologie novecentesche, l’abbassamento del senso critico e della cultura, la scomparsa della politica, l’avvento della società dello spettacolo, sagre nazionalpopolari e al pecoreccio; a questo si aggiunga la lunga stagione del berlusconismo, che ha riattivato in tutto il paese quella cultura popolare di destra sopita e di senso comune, “l’autobiografia della nazione”, che si è diffusa e radicata nelle sue molteplici metastasi diventando sotterraneamente egemone.

I nuovi Emmanuel che abitano il territorio sono ghanesi e nigeriani, senegalesi e del Mali, si spostano a piedi e in bicicletta nei saliscendi della piccola città medievale. Come Buba Sanna Darboe, 25 anni, che viene dal Gambia e abita nel quartiere di Campoleggio, sguardo intenso e svelto di lingua. Era un maestro, scappato da una dittatura sanguinaria che lo perseguitava perché militante del partito di opposizione Unità democratica, adesso fa il traduttore per il Tribunale di Ancona. Era amico di Emmanuel, lo aveva incontrato poco prima che succedesse il fattaccio, «un ragazzo tranquillo, gentile, calmo» dice, «non me l’aspettavo, sono rimasto molto deluso, noi abbiamo lasciato l’Africa per cercare protezione, all’inizio ho avuto paura». Adesso si trova bene, ma alcuni suoi amici hanno ancora timore di essere aggrediti. «Tanti pensano che i neri siano inferiori», dice divertito, «pensano che l’Africa sia un posto brutto, povero, ma è solo ignoranza, mancanza di conoscenza. L’Africa, invece, è un posto bellissimo, ma i dittatori la stanno distruggendo insieme agli occidentali», dice serio. Djibriel Thiounie è senegalese, abita in centro storico, arrivò qui un mese dopo l’assassinio. «Quando mi hanno detto che dovevo trasferirmi a Fermo mi sono impaurito, come fanno gli stranieri che stanno lì? Ho pensato». Lui è in stato di protezione umanitaria, scappato da Casamance, al sud del Senegal, dove l’esercito indipendentista arresta i ragazzi nei piccoli paesi per arruolarli e farli combattere. Si è ribellato, è fuggito con un suo amico, presto freddato dal fuoco dei soldati. Nella piccola cucina al pianoterra della sua abitazione ha appeso la cartina con il percorso del suo lungo viaggio. «Arrivato in Gambia ho proseguito per il Senegal del Nord, poi sono andato nel Mali, Burkina Faso, Niger, fino in Libia dove mi sono imbarcato a Tripoli». Ma prima di riuscire a partire è stato in carcere due anni, vittima di maltrattamenti e violenze. «La gente non capisce perché siamo qui» dice arreso, gli occhi lucidi e acquosi.

Altri Emmanuel si chiamano Camara Ousman, scappato anche lui dal Gambia, magazziniere all’hotel Timone di Porto San Giorgio, o Diallo Elhadj Moustapha, di 19 anni, arrivato qui dalla Guinea minorenne. È un ragazzo mite che si porta addosso una sofferenza invincibile che gli ha quasi tolto il sorriso. Suo padre era un militante dell’Ufdg, la Union of democratic forces of Guinea, morì insieme a suo fratello durante una manifestazione politica, ammazzati a colpi di fucile, sua madre fu fatta sparire, «un giorno è andata a lavorare e non è tornata più» dice addolorato. Solo e senza più affetti, è scappato. «Sono andato nel Mali, due giorni di viaggio in auto, poi in Burkina Faso, ancora sei giorni a piedi e in bicicletta verso il Niger». Ha vissuto la prigione in Libia, poi è evaso. Miracolosamente un pastore incontrato per strada l’ha portato a casa sua, dandogli da mangiare e da dormire, poi ha pagato per lui il viaggio della speranza affidandolo a un trafficante di migranti. Secondo Alessandro Fulimeni, coordinatore del progetto Sprar, dopo la morte di Emmanuel le cose sono persino peggiorate a Fermo: «Non credo di esagerare dicendo che siamo in presenza di una doppia tragedia. Da una parte, un uomo che per salvarsi la vita l’ha messa nelle mani della nostra città e ha trovato una morte brutale; dall’altra una parte non piccola della comunità che invece di avviare una severa riflessione e autocritica su come, al suo interno, sia potuta maturare una simile barbarie, ha reagito con un abbarbicamento identitario improntato a intolleranza o a complice indifferenza». Allora, ai tempi di quel mio romanzo a cornice, vent’anni fa, solo le badanti qui erano le figure dell’avvenire. Poi arrivarono i lavoratori calzaturieri e delle campagne, gli allevatori macedoni, i muratori russi e albanesi, adesso i rifugiati e richiedenti asilo. Come scrisse Max Frisch della nostra emigrazione in Svizzera: «Volevamo braccia, sono arrivati uomini». Il problema è che ancora oggi sembra che gli italiani, “brava gente”, vogliano solo nuova forza lavoro da assoggettare e sfruttare, il prezzo amaro da pagare per diventare cittadini, ma solo cittadini considerati da molti provvisori, e senza diritti.

Leggi ancheMacerata, spari contro migranti. Arrestato l’autore mentre fa saluto fascista

Il reportage di Angelo Ferracuti è stato pubblicato su Left del 23 settembre 2017


SOMMARIO ACQUISTA