Il fronte dei partiti anti migranti non è mai stato così ampio. Mentre a destra si parla di espulsioni e rimpatri, il Pd celebra un anno dal famigerato decreto Minniti Orlando sull’immigrazione. Con l’aiuto dei giuristi dell’Asgi, abbiamo tracciato un primo bilancio

La campagna elettorale è ormai alle battute finali, e come avevamo tristemente previsto (vedi editoriale di S. Maggiorelli su Left del 23 settembre 2017), la bagarre politica si è disputata in gran parte sulla pelle delle donne e dei migranti. Il fronte ostile a questi ultimi, in particolare, non è mai stato così ampio: si va dalla promessa di abolire il permesso di soggiorno per motivi umanitari targata Fratelli d’Italia (solo nel 2017, per intenderci, ne sono stati concessi 20.166, dati del Viminale), alla risibile boutade di Berlusconi sui 600mila migranti irregolari «che vivono di espedienti e di reati» da rimpatriare, per arrivare a Renzi che – all’indomani di un attentato terroristico di matrice razzista – dichiara a RepTv che «non sono i pistoleri a garantire la sicurezza in Italia, bisogna investire su carabinieri e poliziotti». Come se il “pistolero”, il neofascista Luca Traini, fosse un “giustiziere” sui generis che ha perso la testa, e la giustizia equivalga dunque a sorvegliare e, se necessario, togliere di mezzo persone di colore, colpevoli a priori, in virtù della loro origine.

E poi, per concludere in bellezza la rassegna, c’è il pentastellato Luigi Di Maio, che definisce l’immigrazione una «bomba sociale», e Pietro Grasso, capo politico di Leu, che nel salotto di Lucia Annunziata (a Mezz’ora in più), ammette che la politica del ministro Minniti sull’immigrazione «è condivisibile, in linea di massima». Una politica, la “linea dura” del Viminale contro i migranti, che ha viaggiato negli ultimi mesi su binari paralleli: da un lato il via libera alla missione in Libia e il codice condotta contro le ong che operano nel Mediterraneo, dall’altro l’introduzione del Daspo urbano, per allontanare dalle “vetrine” delle città italiane esseri umani sgraditi – spacciatori, ma anche senzatetto colpevoli di essere indecorosi: sono 465 gli “allontanamenti” disposti nel 2017 – nascondendo così il problema sotto il tappeto delle periferie. Ma il lascito più gravoso del tandem tra i ministri di Interno e Giustizia è senza dubbio il loro decreto su “protezione internazionale e contrasto all’immigrazione illegale”.

La norma che, tra le altre cose: ha abolito il secondo grado di giudizio per i richiedenti asilo che ricorrono contro un diniego; ha eliminato l’obbligo dell’udienza del migrante in tribunale, rimpiazzata dalla videoregistrazione della testimonianza resa in commissione; ha – infine – ampliato il network dei centri di detenzione per gli “irregolari”, gli ex Cie, ora Cpr (ad una disamina critica di queste misure abbiamo dedicato la cover story di Left dell’11 novembre 2017, “Razzismo di stato”). Il decreto è stato emanato il 17 febbraio 2017, è stato convertito in legge in aprile ed è diventato definitivamente operativo in agosto. La stretta sull’immigrazione targata Pd ha dunque appena compiuto un anno. È tempo per fare i primi bilanci. Partiamo dal diritto d’asilo.

«Innanzitutto, nel momento in cui si presenta la domanda di protezione internazionale e si perde la possibilità di ricorrere in appello, cioè un grado di giudizio, è dimezzata la possibilità di avere giustizia», esordisce Nazzarena Zorzella, avvocato bolognese e membro dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). «Inoltre, prima del decreto…

L’inchiesta di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola


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