Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione europea, ha già fatto marcia indietro. Per il nono programma quadro della ricerca, denominato Horizon Europe valido per il periodo 2021-2027, Bruxelles chiede agli Stati membri di approvare un budget di 100 miliardi di euro. Un discreto aumento, del 30 per cento, rispetto all’ottavo programma quadro (anni dal 2014 al 2020), denominato Horizon 2020, che ha un budget di 77 miliardi di euro. Ma molto meno di quanto Juncker aveva all’inizio sperato. La sua proposta iniziale era stata di raddoppiare il budget per la ricerca, portandolo a 160 miliardi di euro. «Se arriviamo a questa cifra – aveva detto – entro il 2040 avremo creato 650mila posti di lavoro qualificato in più e aumentato il Prodotto interno lordo dell’Unione dello 0,5%». Questa proposta aveva ottenuto a marzo il sostegno di 13 grandi organizzazioni scientifiche e universitarie, tra cui la European university association (Eua), che a sua volta rappresenta 800 istituzioni dell’Unione.
Jean-Claude Juncker, consapevole delle difficoltà, aveva ventilato anche un piano meno ambizioso: portare il budget di Horizon Europe a 120 miliardi di euro. «Il che significherà comunque – sosteneva – un aumento di 420mila posti di lavoro qualificato in più e un aumento del Pil dell’Unione dello 0,3% entro il 2040».
Ma anche questa proposta meno ambiziosa è stata, di fatto, bocciata. La Commissione è stata costretta – dai veti dei vari Paesi – a ridurre le ambizioni di spesa ad appena 100 miliardi. E poiché questi soldi saranno spalmati su un periodo di sette anni, significa che Bruxelles investirà in ricerca una cifra media annua di 14,3 miliardi di euro. Poco più di una goccia non solo nel mare mondiale degli investimenti in ricerca, ma anche nel mare locale dei Paesi dell’Unione.
Le cifre parlano da sole. Il mondo intero investirà nel 2018 qualcosa come 1.825 miliardi di euro in ricerca e sviluppo. Gli investimenti più importanti saranno a opera degli Stati Uniti, con 461 miliardi di euro, e della Cina, con 396 miliardi di euro. I 14 miliardi che Bruxelles spenderà a partire dal 2021 sono lo 0,8% del totale mondiale: poco più che nulla. Ma rappresentano anche il 3,0% degli investimenti Usa e il 3,5% di quelli della Cina.
Certo, gli investimenti totali in ricerca dei 28 Paesi dell’Unione europea (includiamo ancora il Regno Unito) ammontano a 335 miliardi di euro. Ma questo è il punto critico: gli investimenti decisi a Bruxelles sono appena il 4,2% della spesa complessiva in ricerca nell’Unione. Una quota marginale. Che non contribuisce affatto a realizzare il sogno che era stato di Antonio Ruberti: la creazione di «un’area comune della ricerca», premessa indispensabile per mettere l’Europa in grado di competere con i giganti della società e dell’economia della conoscenza, non solo gli Stati Uniti e la Cina, ma anche il Giappone, la Corea del sud e una costellazione di altri Paesi, la gran parte dei quali localizzati nel sud-est asiatico.
Ci sono due aspetti, uno quantitativo e l’altro qualitativo che minano alla base la possibilità per l’Europa di essere gigante tra i giganti. Negli anni 90 del secolo scorso, l’allora presidente della Commissione europea, il francese Jacques Delors, lanciò un progetto ambizioso: fare dell’Europa l’area leader al mondo dell’economia della conoscenza. Il progetto fu approvato dal Consiglio dei ministri europeo nell’anno 2000 a Lisbona con un’indicazione precisa: dovremo essere i primi entro il 2010. E, due anni dopo, nel 2002, a Barcellona fu deciso anche come: portando gli investimenti in ricerca al 3,0% del Pil. Questo obiettivo quantitativo è stato più volte mancato.
Da un quarto di secolo l’Unione investe in ricerca stabilmente meno del 2,0% del suo Pil, contro il 2,8% degli Usa e, ormai, il 2,1% della Cina o il 3,3% del Giappone. L’Europa non si è mossa di un centimetro e ormai non tiene più il passo degli altri.
Il secondo elemento, qualitativo, di debolezza dell’Europa è proprio la quota marginale degli investimenti decisi a Bruxelles. Il 96% della spesa è decisa in 28 diverse capitali, secondo criteri diversi e spesso divergenti. L’esatto contrario di quanto avviene a Washington o a Pechino o a Tokio. In definitiva, l’Europa non ha una sua organica e incisiva politica della ricerca. Ciò non impedisce alla Germania e agli altri Paesi dell’area teutonica che dal versante settentrionale delle Alpi alla Scandinavia di fare bene. Ma tutti gli altri, chi più chi meno, fanno fatica a entrare da protagonisti nell’economia fondata sulla conoscenza. Il budget proposto dalla Commissione, persino nella sua forma più pingue e rapidamente abortita proposta da Jean-Claude Juncker, non è minimamente sufficiente a colmare né il gap quantitativo né quello qualitativo dell’Europa.
Ma a chi andranno questi 14 miliardi di euro per anno? Non lo sappiamo, naturalmente. Perché si tratta, per lo più, di finanziamenti a progetti che prescindono (o, almeno, dovrebbero prescindere) considerazioni di tipo geografico. Insomma, saranno premiati i progetti migliori senza tener conto della provenienza dei proponenti.
Tuttavia due considerazioni possono essere fatte. Una quota parte, certo, andrà alla ricerca di base. Ma questa quota, ancora difficile da definire, sembra essere sempre più piccola rispetto al passato e, comunque, rispetto a quello che molti considerano il necessario. Si sta imponendo in Europa – anche in Europa – l’idea che la ricerca debba produrre risultati immediatamente spendibili sul mercato. Ne consegue che la gran parte degli investimenti e in quota crescente andrà alla ricerca applicata e all’innovazione tecnologica. Dimenticando che il motore primo della produzione di nuova conoscenza è la ricerca curiosity-driven, quella che soddisfa la curiosità dei ricercatori senza la pressione di applicazioni immediate.
Per quanto riguarda i Paesi di provenienza dei ricercatori che vinceranno i progetti di Horizon Europe non possiamo che rifarci alla serie storica, non potendoli prevedere a priori. Per il programma attualmente in corso, Horizon 2020, l’Italia ha vinto progetti intorno al 9% del totale. Una percentuale abbastanza lontana dalla quota con cui l’Italia partecipa al budget europeo, che è del 14%. Sembrerebbe, dunque, che la scienza italiana è perdente.
Tuttavia bisogna tenere in conto che i ricercatori italiani sono all’incirca il 7% del totale europeo. Se hanno ottenuto il 9% delle risorse significa che, singolarmente, sono stati più bravi della media dei colleghi europei. È il nostro paradosso, i ricercatori italiani sono pochi ma buoni.
Non solo, data la scarsità di risorse nazionali, i ricercatori italiani giocano più degli altri la carta europea. Tentano anche quando, forse, non potrebbero. E, infatti, il tasso di successo di un progetto italiano presentato in Europa non supera il 7,5%. Tutti fanno meglio. Il tasso di successo più alto è quello tedesco (15,3%, il doppio di quello italiano). Ma meglio di noi fanno anche, nell’ordine, francesi, olandesi, inglesi e spagnoli. Anche in questo caso la spiegazione è relativamente semplice. Non solo gli italiani tentano (sono costretti a tentare) di più, scontando un maggior tasso di insuccesso. Ma si muovono in maniera non sempre coordinata. D’altra parte il nostro rapporto con Bruxelles è, non solo nel campo della ricerca, strutturalmente debole e frammentato.In definitiva, l’aumento del 30% del budget della ricerca non sarà sufficiente a modificare il peso relativo dell’Unione nel mondo, né a creare l’area comune vagheggiata da Ruberti. Ma potrebbe essere una buona opportunità per i ricercatori italiani, soprattutto se il Paese sarà presente nei centri decisionali dell’Unione con maggiore forza, sistematicità e organizzazione.