Arrivano da noi per fuggire da violenze, torture, soprusi e fame. Oppure vogliono semplicemente realizzare le proprie aspirazioni, cosa impossibile nel loro Paese. Sono determinati. E vulnerabili. Ad attendere i minori stranieri non accompagnati ci sono però le politiche regressive dell’Ue. E il racket dello sfruttamento

«Mia madre non voleva che fossi buttata per strada, ma mio padre mi diceva che se non avessi sposato quell’uomo mi avrebbe uccisa. Mi ha minacciata e picchiata con la cinghia». Per questo «sono fuggita dal mio paese», il Ghana. Abina (un nome di fantasia), è solo una delle giovani migranti arrivate in Italia a diciassette anni, grazie ai soccorsi in mare di Sos Mediterranée. L’Ong, prima vittima della politica dei porti chiusi portata avanti dal duo Salvini-Toninelli, due settimane fa ha visto “dirottare” nave Aquarius verso il porto di Valencia, col suo carico di 629 persone. Tra di loro anche 123 minori soli, senza parenti, a bordo. Adesso, il governo si appresta a rafforzare l’altolà alle organizzazioni umanitarie, di concerto con la Guardia costiera, delegando il coordinamento di buona parte delle operazioni di salvataggio in acque internazionali alle famigerate autorità del governo di al Serraj. Respingendo, di fatto, verso l’inferno libico un’umanità in fuga. Fatta anche di bambini e bambine. Come Abina.

«Dal Ghana alla Libia – prosegue la sua testimonianza – il mio viaggio è durato tre settimane. Non pensavo che fosse così difficile. Però attraversare il mare è peggio del viaggio nel deserto, lì, almeno, se cadi c’è la sabbia, nel mare tutti si spingono, sei schiacciata uno sopra l’altro, se cadi in mare nessuno ti raccoglie». La seconda epopea, quella verso l’Europa, Abina la affronta dopo aver provato a lavorare come domestica a Tripoli, per pagarsi gli studi. «Facevo le pulizie in casa di una donna araba che non mi ha mai pagata – racconta -, se le chiedevo i soldi mi picchiava». Le vessazioni, il razzismo vivissimo del Paese nordafricano, poi l’arrivo in Italia. E il futuro che torna a riempirsi di sogni. «Ho pensato che se mi fossi salvata avrei studiato per aiutare le persone in prigione», spiega agli attivisti che l’hanno portata in salvo, «perché anche noi vivevamo come in una prigione, ho visto che cosa vuol dire». Quella di Abina è una storia unica, ma – al tempo stesso – comune a tanti suoi compagni di viaggio.

«Gli ultimi ragazzini sbarcati a Pozzallo sono abbastanza piccoli. Tra di loro, un gruppo di quattro eritrei, dagli otto ai tredici anni». Arrivati da soli. A raccontarlo è…

L’inchiesta di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola


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