Il film “L’affido” descrive le dinamiche in cui si consumano le separazioni da rapporti familiari malati, spesso con la complicità delle istituzioni. I tribunali decidono la vita di genitori e figli, vittime innocenti, ma manca una vera conoscenza delle cause che generano la violenza

Lo strano silenzio che avvolge da qualche tempo il tema della violenza contro le donne si trasforma nel rumore forte di un turbine di pensieri dopo la visione di L’affido – Una storia di violenza, primo bellissimo lungometraggio di Xavier Legrand.
Nel nostro Paese (ma nel resto del mondo le cose non vanno meglio) quasi ogni giorno una donna muore uccisa dal suo compagno “bravo italiano”, come ha giustamente sottolineato Furio Colombo nel corso di un recente talk televisivo. Le statistiche purtroppo non registrano alcuna incoraggiante diminuzione dei femminicidi, ma da quando il nuovo governo si è insediato, misteriosamente di questa emergenza non si dà più notizia. Le centinaia di migranti, anche bambini, uccisi in poco tempo per proteggere l’Italia da un’inesistente invasione, non si possono tacere, per fortuna.
Ma, forse, nell’Italia in cui si cancellano con disinvoltura quote rosa e pari opportunità (“stampelle”, è vero, che tuttavia servono a chi è stato azzoppato per riprendere a camminare, in attesa che le ossa si rinsaldino) è lecito, se non addirittura doveroso, sospettare che si voglia stendere un impietoso velo sul dramma della violenza. Violenza che non si esaurisce in quella sessuale della quale – è pur vero – il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha fatto menzione nel suo discorso per la fiducia al Senato: ma come scacciare il pensiero che di quella si parli con il sottinteso, ingiurioso e falso, che sia portata dall’immigrazione?
Quella che racconta il film L’affido, al contrario, è una violenza che non si lascia confinare all’interno di una nazione, nemmeno si riduce alla violenza di genere, perché coinvolge…

L’articolo della psicoterapeuta Barbara Pelletti prosegue su Left in edicola


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