Io non so se avete avuto l’occasione di guardare gli occhi di Josefa, l’unica persona viva sulle macerie del barcone ritrovato dalla Ong Open Arms in mezzo al mare, con a fianco una donna e un bambino lessati e uccisi dal sale. Josefa ha quarant’anni, i capelli bianchi (ce lo racconta splendidamente Annalisa Camilli che in questa radura di diritti è un vedetta resistente) e due occhi che sono l’unico disperato disegno possibile del buio.
Il buio ha gli occhi di Josefa, sbarrati perché pronti a tutto dopo avere visto l’abisso dell’uomo che diventa lupo. Non ha bisogno di battere le ciglia per uno schizzo o per un eccesso di luce chi ha visitato l’inferno. Tutto il resto è niente: è niente il bullismo barzotto di qualche miserabile ministro che si vanta di avere lasciato a bagnomaria qualche cadavere; è niente la rinnovata postura istituzionale di quella criminale Guardia Costiera libica che ha trovato un Salvini dopo un Minniti per aspirare a un po’ di legittimazione; è niente il chiasso che facciamo noi, qui, mentre proviamo a tenere in bilico un’umanità che si è già versata, tutta sbrodolata, e ci occupiamo delle briciole.
Però gli occhi di Josefa andrebbero fatti vedere un po’ dappertutto perché superano la barriera delle opinioni e del giornalismo entrando negli intestini: «Pas Libye, pas Libye» dice Josefa, come scrive Annalisa Camilli. Una donna picchiata (come racconta lei stessa) dal marito perché sterile, poi picchiata dalla Guardia Costiera libica perché si rifiutava di salire sulla loro imbarcazione, poi lasciata in acqua per giorni aggrappandosi alle macerie della sua imbarcazione (fatta a pezzi dalla Guardia Costiera libica) e infine salvata per un pelo ha un solo pensiero: non tornare in Libia. La propaganda si sbriciola. Per dirla facile facile: le chiacchiere stanno a zero.
Facciamo così: è porto “sicuro” quello in cui mandereste i vostri figli. Che dite?
Buon mercoledì.