Di Giorgio Manganelli, più che le opere letterarie, abbiamo sempre amato quelle occasionali, nate da uno sguardo ribelle, senza sofismi d’accademia. Basta pensare a certi suoi acuminati giudizi su Tiepolo. («Non è solo un bugiardo, è un falsario, l’inventore di un mondo coerente e inabitabile, seducente e irraggiungibile») o alla sua tenace lettura di Pontormo e del suo scontroso diario. («Libro riluttante, dispettoso, di un pittore che ha dipinto secondo una “maniera” singolare, meravigliosamente aspra e fantastica»). Dietro al suo modo di leggere l’arte c’è sempre la ricerca della persona, dell’artista e un tentativo di indagarne, oltreché la poetica, la personalissima visione del mondo. Analogamente, da certa data in poi, dopo essere stato a lungo scrittore e lettore sedentario, Manganelli sviluppa una passione per il viaggio, mosso dal desiderio di conoscere l’altro, di rapporto con realtà diverse; alla ricerca dello sconosciuto che può arrivare a mettere in crisi chi non viaggia da turista, ma sia disposto ad affrontare l’imprevisto, l’ignoto. «Manganelli era attratto dall’altrove», ha scritto Salvatore Nigro. «E della lontananza aveva una misura emotiva e passionale. La inseguiva sugli atlanti, come sulle carte topografiche e sugli orari dei tram». Ogni luogo da raggiungere era per lui altrove, e insieme intimo e lontano da sé. Così, dopo essere stato in Cina, nelle Filippine, in Malesia andò in India nel 1975. Cinque anni prima si era tuffato nel grande continente da cui nasce questo breve testo, Viaggio in Africa, che Adelphi pubblica in nuova edizione e con la postfazione di Viola Papetti. Cosa piuttosto curiosa, queste pagine così ispirate e dense, nascono da un viaggio fatto su commissione. Giorgio Manganelli fu ingaggiato da Carlo Castaldi, dirigente di Bonifica, che aveva progettato la Transafricana, una strada lungo la costa dell’Africa orientale, dal Cairo a Dar es Salaam. L’industriale pensava di aver trovato in lui un cantore dell’iniziativa. Invece si ritrovò tra le mani una puntuta e preoccupata relazione sul “pragmatico neocolonialismo ferroviere e alberghiero” che avrebbe portato con sé. La costruzione della TA1 avrebbe reso quella parte di Africa più comodamente vendibile denunciò Manganelli. Nonostante vi fosse andato da “embedded”, riuscì a sviluppare un punto di vista sull’Africa libero da ogni esotismo, avendo provato sulla propria pelle un sole che non lascia scampo e piogge torrenziali. Dal rapporto con la vastità e la potenza della natura africana ricava, per confronto, una chiara visione dell’artificialità della vita urbana in Europa. («La città ignora le stagioni se non come definizioni economiche»). Ma è soprattutto l’incontro con persone e culture differenti a offrirgli una angolazione inedita, quanto mai lontana dall’approccio muscolare di Heminguay, dal misticismo di Whitman o dal tenebrismo di Conrad. «Nella fantasia dell’europeo l’Africa è in primo luogo una regione selvaggia, popolata di animali da zoo, un parco, una riserva, anche uno scenario cinematografico», scrive in Viaggio in Africa. «Al cinema, i colori irruenti, la facile poesia, il tempo prestabilito rendono agile la degustazione innocua di uno spazio primitivo». L’esotismo alla maniera de La mia Africa, non faceva per Manganelli che detestava il «frigido e disonesto cliché cinematografico». L’incontro con l’Africa, non tanto quella mediterranea, ma quella delle terre aspre e solitarie oltre il Sahara è per lo scrittore scomparso nel 1990 qualcosa di ben più intimamente sconvolgente. «Il viaggiatore potrà non trovare città, villaggi, capanne, non incontrerà uomini per decine di chilometri». È soprattutto l’Africa coloniale a lasciarlo senza fiato: ridisegnata con violenza dalle potenze europee, gli appare come «miraggio e incubo, nati dal nostro passato e dal nostro angustiato presente». «L’africano è prigioniero dei suoi luoghi senza confine». Con questa visione negli occhi di «un’Africa nera, magmatica, informale, che non ama il principio di non contraddizione» approderà in Grecia, trovando insopportabile il Partenone, frutto di un «gesto di violenza ragionevole nei confronti della stessa demonicità greca e rifiuto di Eleusi».

Di Giorgio Manganelli, più che le opere letterarie, abbiamo sempre amato quelle occasionali, nate da uno sguardo ribelle, senza sofismi d’accademia. Basta pensare a certi suoi acuminati giudizi su Tiepolo. («Non è solo un bugiardo, è un falsario, l’inventore di un mondo coerente e inabitabile, seducente e irraggiungibile») o alla sua tenace lettura di Pontormo e del suo scontroso diario. («Libro riluttante, dispettoso, di un pittore che ha dipinto secondo una “maniera” singolare, meravigliosamente aspra e fantastica»). Dietro al suo modo di leggere l’arte c’è sempre la ricerca della persona, dell’artista e un tentativo di indagarne, oltreché la poetica, la personalissima visione del mondo. Analogamente, da certa data in poi, dopo essere stato a lungo scrittore e lettore sedentario, Manganelli sviluppa una passione per il viaggio, mosso dal desiderio di conoscere l’altro, di rapporto con realtà diverse; alla ricerca dello sconosciuto che può arrivare a mettere in crisi chi non viaggia da turista, ma sia disposto ad affrontare l’imprevisto, l’ignoto. «Manganelli era attratto dall’altrove», ha scritto Salvatore Nigro. «E della lontananza aveva una misura emotiva e passionale. La inseguiva sugli atlanti, come sulle carte topografiche e sugli orari dei tram». Ogni luogo da raggiungere era per lui altrove, e insieme intimo e lontano da sé. Così, dopo essere stato in Cina, nelle Filippine, in Malesia andò in India nel 1975. Cinque anni prima si era tuffato nel grande continente da cui nasce questo breve testo, Viaggio in Africa, che Adelphi pubblica in nuova edizione e con la postfazione di Viola Papetti. Cosa piuttosto curiosa, queste pagine così ispirate e dense, nascono da un viaggio fatto su commissione. Giorgio Manganelli fu ingaggiato da Carlo Castaldi, dirigente di Bonifica, che aveva progettato la Transafricana, una strada lungo la costa dell’Africa orientale, dal Cairo a Dar es Salaam. L’industriale pensava di aver trovato in lui un cantore dell’iniziativa. Invece si ritrovò tra le mani una puntuta e preoccupata relazione sul “pragmatico neocolonialismo ferroviere e alberghiero” che avrebbe portato con sé. La costruzione della TA1 avrebbe reso quella parte di Africa più comodamente vendibile denunciò Manganelli. Nonostante vi fosse andato da “embedded”, riuscì a sviluppare un punto di vista sull’Africa libero da ogni esotismo, avendo provato sulla propria pelle un sole che non lascia scampo e piogge torrenziali. Dal rapporto con la vastità e la potenza della natura africana ricava, per confronto, una chiara visione dell’artificialità della vita urbana in Europa. («La città ignora le stagioni se non come definizioni economiche»). Ma è soprattutto l’incontro con persone e culture differenti a offrirgli una angolazione inedita, quanto mai lontana dall’approccio muscolare di Heminguay, dal misticismo di Whitman o dal tenebrismo di Conrad. «Nella fantasia dell’europeo l’Africa è in primo luogo una regione selvaggia, popolata di animali da zoo, un parco, una riserva, anche uno scenario cinematografico», scrive in Viaggio in Africa. «Al cinema, i colori irruenti, la facile poesia, il tempo prestabilito rendono agile la degustazione innocua di uno spazio primitivo». L’esotismo alla maniera de La mia Africa, non faceva per Manganelli che detestava il «frigido e disonesto cliché cinematografico». L’incontro con l’Africa, non tanto quella mediterranea, ma quella delle terre aspre e solitarie oltre il Sahara è per lo scrittore scomparso nel 1990 qualcosa di ben più intimamente sconvolgente. «Il viaggiatore potrà non trovare città, villaggi, capanne, non incontrerà uomini per decine di chilometri».
È soprattutto l’Africa coloniale a lasciarlo senza fiato: ridisegnata con violenza dalle potenze europee, gli appare come «miraggio e incubo, nati dal nostro passato e dal nostro angustiato presente». «L’africano è prigioniero dei suoi luoghi senza confine». Con questa visione negli occhi di «un’Africa nera, magmatica, informale, che non ama il principio di non contraddizione» approderà in Grecia, trovando insopportabile il Partenone, frutto di un «gesto di violenza ragionevole nei confronti della stessa demonicità greca e rifiuto di Eleusi».