È dall’inizio dell’anno scolastico che docenti e alunni attendevano ragguagli sul futuro esame di Stato e la notizia è arrivata poche settimane fa proclamando alcuni cambiamenti che rientrano a pieno titolo nel clima politico del nuovo governo gialloverde. La cosa che balza agli occhi e che ha subito destato le critiche del mondo degli storici – autori di un appello contro le nuove disposizioni del Miur – e dei docenti è l’eliminazione della traccia storica dalle possibili scelte nel tema di italiano.
Una cancellazione che va a sommarsi a una politica di svilimento della disciplina che, ormai da dieci anni nel nostro Paese, i vari ministri della scuola stanno portando avanti. Mariastella Gelmini nel 2010 tolse dai licei scientifici e linguistici un’ora di insegnamento dalle tre totali e quest’anno agli istituti professionali invece di due ore di storia alla settimana ce ne sarà una soltanto.
Il risultato è quello di attaccare la memoria e quindi l’identità dei futuri cittadini che non devono ricordare, non devono conoscere il proprio passato.
La storia è lo strumento principale per interpretare il presente, per formare la coscienza critica di coloro che si recheranno alle urne, l’antidoto fondamentale contro i virus dell’intolleranza e degli integralismi. Gli effetti di questa incuria si sentono già tra le aule e i corridoi della scuola secondaria superiore e insegnare la storia ai ragazzi del triennio è diventato difficile. Innanzitutto i giovani di oggi hanno pochissima dimestichezza con le coordinate spazio-temporali: il ‘900 è un blocco unico, il fascismo non si sa se viene prima o dopo la prima o la seconda Guerra mondiale, il prima e il dopo Cristo sono come simboli di una punteggiatura che viene utilizzata un po’ a caso… Geograficamente il mondo appare una carta misteriosa e assolutamente muta. Il docente deve non dare niente per scontato, ricordarsi di scandire bene le date spartiacque, definire a più riprese il significato di concetti quali “reazione” e “rivoluzione”.
La storia insegna inoltre a fare i conti con le fonti, con l’attendibilità dei testi, con l’uso sapiente delle citazioni e della paternità delle notizie, tutti esercizi lontani dalla pratica quotidiana dei nostri politici e giornalisti, figuriamoci dei ragazzi! È vero che i giovani di oggi scelgono rarissimamente la traccia di storia nel tema di italiano e che la storia appare loro spesso come una valanga di date e di battaglie da ricordare, ma eliminarla dalle possibilità di scelta di un candidato che voglia conseguire un diploma e immettersi poi nel mondo dell’università, del lavoro o semplicemente della vita pubblica e politica del proprio Paese, significa precludergli quella via che lo introduce alla conoscenza profonda e consequenziale della catena di eventi che hanno determinato la formazione dell’identità di se stesso e dei suoi simili. La strada dei revisionismi storici è così spalancata per l’uso propagandistico dei politici di turno.
Ogni giornalista di oggi sa che il vero modo per influire sull’opinione pubblica consiste nello scegliere e nel disporre in un certo i modi i fatti. I fatti non parlano mai da soli, vanno interpretati e questo è il lavoro degli storici. Lo storico sceglie e si schiera. Eliminare la storia significa togliere a tutti noi le domande sui perché le cose sono andate e vanno in un certo modo per comprendere il nostro passato e il nostro presente. Ciascun individuo non è isolato e a sé stante ma in continua relazione con l’ambiente e chi lo circonda. L’uomo senza la storia diventa muto e stupido, sarà questo il motivo per cui tutti i regimi totalitari hanno per prima cosa messo mano ai testi di storia nelle scuole?
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Elisabetta Amalfitano è docente di scuola superiore e autrice di saggi fra i quali “Le gambe della sinistra”