Un commando militare ha costretto i 79 giovani profughi (Eritrea, Somalia, Sudan e Bangladesh) a sbarcare con la forza a Misurata ferendone alcuni. Ora rischiano di venire incriminati dall'autorità libica come infiltrati o terroristi

È finita come si temeva la vicenda dei 79 migranti che si rifiutavano di lasciare la Nivin, la nave panamense approdata nel porto di Misurata dopo averli recuperati nel Mediterraneo, a circa 60 miglia dalla costa libica: un commando armato ha fatto irruzione a bordo e li ha costretti a sbarcare con la forza in quella Libia in cui non volevano assolutamente tornare.

Il blitz è scattato all’indomani di un estremo, disperato appello lanciato da quei ragazzi a tutta la comunità internazionale ma, in particolare, all’Europa, a Panama (a cui appartiene il cargo) e all’Italia, la quale avrebbe collaborato all’operazione di recupero che li ha portati a Misurata. Si tratta di due video girati con un cellulare, uno in lingua inglese e l’altro in tigrino.

Nel primo, il più drammatico, parla Christin Igussol, un ragazzo eritreo di 16 anni, reduce dal lager di Bani Walid, forse il più orrendo dell’intera Libia, noto in Italia, tra l’altro, perché proprio da lì veniva l’aguzzino somalo sorpreso a Milano su segnalazione di alcune delle sue vittime e condannato all’ergastolo. In tutti quei mesi Christin racconta, in inglese, di aver subito violenze di ogni genere, schiavo nelle mani di miliziani e trafficanti. E dice, in particolare, del fratello maggiore morto tra le sue braccia, ucciso dai maltrattamenti e dalle sofferenze.

Del secondo sono protagonisti altri tre giovani eritrei: oltre a confermare l’orrore dell’inferno libico, descrivono, in tigrino, la situazione che stanno vivendo sulla nave: bottiglie per soddisfare i bisogni fisici, il ponte di ferro come giaciglio, il freddo, il cibo precario, la mancanza di scarpe e di indumenti.

Sia Christin che gli altri hanno concluso, a nome di tutti i compagni a bordo, che erano disposti a morire piuttosto che ritornare nell’inferno vissuto in Libia. Nessuno li ha ascoltati. Eppure il blitz era nell’aria. Due giorni prima, il 18 novembre, Mohamed Al Haibani, il sottosegretario all’Immigrazione del ministero dell’Interno di Tripoli, ha dichiarato al Libyan Address che, se quei ragazzi avessero continuato a rifiutare ogni negoziato per lasciare la nave, il governo li avrebbe considerati non migranti o rifugiati ma “infiltrati”, clandestini, perseguibili in base alla legge. Minacce simili, molto più esplicite e pesanti, erano arrivate qualche giorno prima dal comandante del porto, che ha parlato addirittura di “pirati” o “terroristi” e quasi di un ammutinamento per impadronirsi del cargo, tanto da aver minacciato di morte l’equipaggio e tentato di bruciare parte del carico a bordo. Queste accuse sono state smentite dallo stesso equipaggio e dall’armatore, ma sono rimaste.

La mattina del 19, poi, accompagnati da un diplomatico libico, è salito sulla Nivin personale diplomatico d’ambasciata, dei Paesi da cui provengono i 79 ragazzi: Somalia, Eritrea, Bangladesh, Sudan. La delegazione ha chiesto ai giovani di sbarcare e di consegnarsi alle autorità libiche, assicurando che li avrebbero protetti e offerto la possibilità di un rimpatrio nei rispettivi Paesi. Ma tutti si sono rifiutati di tornare prima in Libia e poi eventualmente nelle situazioni di guerra, crisi, persecuzione che li hanno costretti a scappare: realtà come l’Eritrea, schiava della dittatura militare di Isaias Afewerki; la Somalia sconvolta dal terrorismo e da una carestia infinita; il Darfur (da dove vengono quasi tutti i ragazzi sudanesi) martoriato dalle milizie di Al Bashir e da una guerra civile ormai decennale.

Il no all’offerta fatta dai diplomatici era scontato. Ma quell’incontro con gli ambasciatori è in pratica servito da alibi al governo libico: il pretesto per ricorrere alla forza perché ogni trattativa, ogni proposta, era stata respinta. Che si stesse preparando qualcosa si è intuito nelle primissime ore del mattino di martedì 20, quando la banchina portuale dove la Nivin si era ancorata l’8 novembre, è stata circondata da agenti di polizia armati, in numero molto maggiore delle squadre incaricate dei normali controlli nei giorni precedenti. Poi, verso le 11, è scattato il blitz: poliziotti in assetto di guerra hanno fatto irruzione a bordo, sparando gas lacrimogeni e proiettili di gomma, picchiando, immobilizzando, arrestando tutti i 79 migranti.

Alla fine, si sono contati 11 feriti. Li hanno condotti all’ospedale di Misurata. Due di loro, i più gravi, sarebbero successivamente stati trasferiti a Tripoli. Tutti gli altri sono finiti in carcere o nei centri di detenzione. In particolare, secondo fonti del Coordinamento Eritrea Democratica, 26 o 27 sarebbero trattenuti all’Anti crimen departement e 21 rinchiusi nel campo di Krarim, nei pressi di Misurata, dove sono anche i 15 profughi scesi dalla nave nei giorni precedenti, inclusa una donna e un bambino di tre anni. Gli altri 32 pare siano stati destinati a centri di detenzione sparsi nella zona.

Non una parola da parte della comunità internazionale. Eppure non solo si è trattato di un respingimento di massa, effettuato in acque internazionali, in contrasto con le norme più elementari della legge e del diritto, nel momento stesso in cui alla Nivin è stato dato ordine di far rotta sulla Libia. Libia che, nella sua interezza, non può assolutamente essere considerata un “porto sicuro”: l’Unhcr e Amnesty lo hanno ribadito anche in questi giorni, sottolineando che nessun migrante può essere riconsegnato a quell’inferno, dove la sua stessa vita viene messa in grave pericolo. Ma ora c’è il rischio che gran parte di quei 79 ragazzi, tutti o in gran parte, vengano addirittura incriminati e processati come “infiltrati” o, molto peggio, come “pirati” o “terroristi”. È una questione da seguire attentamente. C’è da chiedersi se la comunità internazionale – in particolare l’Italia e l’Europa – resterà indifferente anche di fronte a questa terribile eventualità.