Le assemblee e le proteste negli atenei hanno svelato la condizione degli invisibili: ricercatori, assegnisti, borsisti e docenti a contratto. Sono loro che per il 55% reggono la didattica e la ricerca. Senza tutele

«Abbiamo sentito sia chi governava l’anno scorso, il Pd, sia chi governa oggi, il M5s. Sembravano dello stesso partito». Tito Russo, del centro nazionale Flc Cgil, è uno di quelli che ha incalzato i parlamentari al Senato accademico occupato de La Sapienza di Roma, nei giorni scorsi, quando la protesta dei precari ha toccato alcuni atenei italiani. Il confronto, trasmesso in diretta social, è stato, come si suol dire, altamente istruttivo.

Da una parte, i politici alle prese con gli scampoli della legge di bilancio che per l’Università riserva un aumento di 40 milioni di euro destinato al Fondo ordinario di finanziamento (Ffo) e dall’altra i rappresentanti della mobilitazione dei Ricercatori determinati, «determinati a riprenderci il futuro», come hanno scritto al presidente Mattarella. Ovvero i precari di tutte le tipologie – assegnisti di ricerca, docenti a contratto, Rtda (ricercatori a tempo determinato junior) e collaboratori di ricerca – che da alcuni mesi hanno lanciato la campagna “Stesso lavoro. Stessi diritti. Perché noi no?”. Alla rete promossa da Flc Cgil, Adi, Coordinamento ricercatori non strutturati si è affiancato anche il coordinamento universitario Link, perché il diritto allo studio, con migliaia di studenti giudicati idonei ma che non riescono ad avere la borsa di studio, è un’altra falla che spiega la deriva degli atenei italiani. Ormai le statistiche sono implacabili: siamo penultimi in Europa per numero di laureati, peggio di noi c’è solo la Romania.

«Sì, è stato approvato questo emendamento, ma il problema è che i 40 milioni non sono dedicati ad un intervento specifico, rappresentano solo un borsellino che verrà ripartito tra gli atenei» dice Russo. Briciole, dunque. E anche

L’inchiesta di Donatella Coccoli prosegue su Left in edicola dal 14 dicembre 2018


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