“Il diritto alla città storica”, con questo titolo il 12 novembre, a Roma, si è svolta un’iniziativa organizzata dall’associazione Bianchi Bandinelli. Per riportare al centro della discussione urbanistica, politica e sociale un tema che, come dimostrano le recenti e spesso disastrose trasformazioni di tanti nostri centri urbani, si impone per urgenza. Nell’ambito di questo convegno – con contributi di Pier Luigi Cervellati, Tomaso Montanari e tanti altri – è stato presentato il disegno di legge a tutela dei centri storici (il testo si può leggere sul sito dell’Associazione Bianchi Bandinelli) che è al centro del colloquio fra l’archeologa Maria Pia Guermandi e l’urbanista Vezio De Lucia
Vezio De Lucia, perché un’iniziativa sui centri storici? Non eravamo il Paese più tutelato d’Europa?
Eravamo. In effetti il nostro Paese fu il primo, all’inizio degli anni 60, a affrontare il tema della conservazione e del recupero dei centri storici, non solo come contenitori di monumenti ma in quanto essi stessi monumento: e il merito va soprattutto a Antonio Cederna indiscusso ispiratore di quell’autentica rivoluzione culturale.
E poi che è successo?
L’Italia sta rinnegando il suo passato e dovunque è in grave crisi la vivibilità dei centri storici, pascolo della speculazione, del malgoverno, di piccoli e grandi abusi. Ma più di ogni altra cosa i centri storici sono affetti da un grave spopolamento. Non dovunque e non nella stessa misura, ma sono drammatici i dati sulla diminuzione dei cittadini delle città d’arte, massicciamente sostituiti da turisti e da attività annesse, e dei piccoli Comuni nell’interno del Mezzogiorno (l’“osso” di Manlio Rossi Doria) dissanguato dall’emigrazione e abbandonato. Con il convegno del 12 novembre cerchiamo di delineare una strategia per ribaltare queste tendenze.
Possiamo dire che il turismo, prima industria mondiale, stia cannibalizzando il centro delle città d’arte?
Venezia ne è un esempio paradigmatico. Secondo Paola Somma, che ne parla al convegno, da tempo non è più una “città”, ma solo il quartiere turistico di una conurbazione che aveva bisogno di grandi opere infrastrutturali per massimizzare l’accessibilità e potenziare i punti di sbarco: aeroporto, porto, stazione, parcheggi, darsene. Piano perfettamente riuscito. Oggi 8 case su 10 sono di proprietà di investitori, ogni sabato scendono dalle grandi navi 30mila turisti che, uniti agli sbarchi via terra e via aria, sono più degli abitanti. Qualcuno ancora protesta, ma il sindaco è soddisfatto e dice: la città è di chi la ama. Cose analoghe si registrano a Firenze e Roma.
È davvero un fenomeno così esteso o riguarda solo le grandi mete turistiche?
Il turismo è certo una tra le più importanti cause di operazioni di gentrificazione, ma in moltissimi centri continua a essere la speculazione immobiliare a erodere spazi pubblici e a innescare operazioni di espulsione delle fasce sociali economicamente più svantaggiate.
Il premio Ranuccio Bianchi Bandinelli, che ogni anno l’associazione assegna a un benemerito della tutela del nostro patrimonio, quest’anno tocca a Pier Luigi Cervellati.
E a chi se non a Cervellati, il fondatore, in Italia e, credo, nel mondo, del restauro urbano, oppure, se volete, più banalmente, del recupero dei centri storici a usi abitativi? Il suo nome è tutt’uno con il piano per il centro storico di Bologna del 1972, un piano per l’edilizia economica e popolare che per la prima volta ha previsto la realizzazione di edilizia pubblica tramite interventi di recupero: la tutela delle strutture fisiche come condizione per garantire la permanenza in centro delle famiglie residenti e delle attività tradizionali (come l’artigianato e il piccolo commercio). Al convegno presentiamo un’inedita intervista proprio sul piano del centro storico di Bologna, e in particolare sulle difficoltà che incontrò nel rapporto con l’amministrazione comunista e anche con i militanti preoccupati dell’esproprio.
Perché una legge? Pensate davvero che nell’attuale contesto politico sia lo strumento migliore?
Perché i centri storici sono stati di fatto ignorati dalle leggi di tutela, a partire dallo stesso Codice dei beni culturali. La proposta è il prodotto di un lavoro collettivo, cominciato nella primavera scorsa. È d’impianto radicale, e nessuno di noi s’illude che possa essere approvata così come la presentiamo. Ma non spetta a noi l’esercizio della mediazione con il mondo politico e parlamentare. Ci spetta invece di formulare una proposta limpida, ma tecnicamente fattibile, questo penso che sia il compito di un’associazione culturale.
Quali sono i contenuti di questa proposta e in particolare quelli che potrebbero arginare l’attuale situazione di degrado?
Molto in sintesi, sono i seguenti: la definizione di “centro storico”, che facciamo coincidere con gli insediamenti urbani riportati nel catasto del 1939, unificando in tal modo i riferimenti temporali e cartografici degli strumenti urbanistici comunali; la dichiarazione dei centri storici come «beni culturali d’insieme», sottoposti alla disciplina conservativa del Codice, con “divieto di demolizione e ricostruzione e di trasformazione dei caratteri tipologici e morfologici degli organismi edilizi e dei luoghi aperti, di modificazione della trama viaria storica» e con divieto di nuova edificazione. Norma immediatamente prescrittiva che impedirebbe gli scempi che abbiamo denunciato prima; una serie di “principi” di buon governo del territorio di competenza statale che devono essere recepiti dalla legislazione regionale come prevede il terzo comma dell’articolo 117 della Costituzione.
Fin qui si tratta di principi “conservativi”: non temete di passare per “anime belle”?
Non corriamo questo rischio perché non ci fermiamo alla tutela. Per rigorose ed efficaci che siano le norme di tutela, se non si affronta con determinazione il nodo dello spopolamento, il destino dei centri storici è segnato. Per questo il contenuto più forte della nostra legge è un programma straordinario dello Stato di edilizia residenziale pubblica nei centri storici. Serve l’intervento diretto e straordinario dello Stato, come nei casi di gravi calamità naturali. La proposta prevede perciò interventi molto determinati: l’utilizzo a favore dell’edilizia residenziale pubblica del patrimonio immobiliare pubblico dismesso (statale, comunale e regionale); l’obbligo di mantenere le destinazioni residenziali con la sospensione dei cambi d’uso verso destinazioni diverse da quelle abitative; l’erogazione di contributi a favore dei Comuni per l’acquisto di alloggi da cedere in locazione a canone agevolato, norma che vale in particolare per i paesi in esodo.