Per la terza volta, la sera del 25 gennaio migliaia di fiaccole illumineranno piazze e strade di ogni parte d’Italia: si accenderanno alle 19.41, l’ora in cui per l’ultima volta Giulio Regeni diede notizia di sé, esattamente tre anni fa al Cairo. Da quel momento, come sappiamo, Giulio è stato inghiottito dalla macchina repressiva in funzione costantemente dal 3 luglio 2015, giorno del colpo di Stato dell’allora generale e ora presidente Abdel Fattah al-Sisi.
Sin dall’inizio chi conosce bene la situazione dei diritti umani in Egitto ha parlato di un “delitto di Stato”, di una catena di comando, la cui estensione è naturalmente da determinare, che tiene insieme da tre anni chi ha ordinato il sequestro, la sparizione, la tortura e l’omicidio di Giulio, chi ha eseguito quei crimini e chi ha coperto gli autori, depistando, insabbiando e impedendo ogni significativo passo avanti verso l’accertamento della verità. Quasi tutti i tre anni trascorsi da allora sono passati attraverso blande iniziative dei governi italiani. L’unico gesto di “inimicizia”, il ritiro dell’ambasciatore dal Cairo nell’aprile 2016, è stato annullato dal provvedimento di segno opposto, nell’agosto 2017.
Da lì è iniziato un periodo di inerzia, segnato dalla progressiva normalizzazione delle relazioni tra Italia ed Egitto, dall’infittirsi delle visite e degli inviti. Di quell’inerzia, le autorità egiziane hanno approfittato per prendere ulteriore tempo. La situazione dei diritti umani è, se possibile, ulteriormente peggiorata: la morsa nei confronti della Commissione egiziana per i diritti e le libertà – che da subito si era messa a disposizione della famiglia Regeni per fornire consulenza legale e che già nel 2016 aveva visto suoi esponenti finire in carcere – si è fatta più serrata. In coincidenza con l’arrivo del nuovo ambasciatore italiano al Cairo, il 10 settembre 2017 è stato arrestato Ibrahim Metwally, presidente dell’Associazione dei genitori degli scomparsi e collaboratore della Commissione. Poi sono iniziate le intimidazioni e le “visite” negli uffici dell’Ong. Infine, il 10 maggio sono stati arrestati Mohamed Lotfy, presidente della Commissione, e sua moglie Amal Fathy. Mentre Mohamed Lotfy e il loro figlioletto, entrambi con passaporto svizzero, sono stati presto rilasciati, per Amal è iniziato l’incubo.
Su di lei pende una condanna a due anni per un video di denuncia sulle molestie sessuali ed è tuttora in corso un processo per terrorismo. Accuse risibili: per intimidire un uomo, si perseguita la moglie. Una decina di giorni fa, Lotfy ha ricevuto via telefono un vero e proprio ricatto da parte dell’Agenzia per la sicurezza nazionale: fornisci informazioni sulle attività che state svolgendo su Giulio Regeni, altrimenti ci saranno conseguenze familiari. La risposta delle autorità egiziane di fronte all’accelerazione data dalla Procura di Roma a inizio dicembre, quando ha iscritto nel registro degli indagati alcuni funzionari dell’Agenzia per la sicurezza nazionale e di altri organi di sicurezza è stata, in sintesi, quella di prendere Amal Fathy in ostaggio.
In questo scenario, il ruolo delle istituzioni italiane è quanto mai fondamentale: il presidente della Camera Roberto Fico ha dato segno di grande attenzione e sensibilità. Di recente, l’assemblea dei capigruppo della Camera ha deliberato di discutere, a marzo, la proposta di legge sull’istituzione di una commissione di inchiesta sulla morte di Giulio, presentata alla fine del maggio scorso dai deputati di Sinistra italiana.
In quella proposta si legge, tra l’altro, che «anche il Parlamento, in base all’articolo 82 della Costituzione, può dare il suo contributo per approdare definitivamente alla verità, perché, se è vero che ci sarà da accertare una verità giudiziale su questo omicidio, è anche vero che c’è da ricostruire quella storica». La verità storica appare peraltro già evidente. Quando con essa coinciderà quella giudiziaria, un passo avanti importante sarà stato finalmente fatto.
Sperando che arrivi presto. Non vogliamo arrivare a un quarto anniversario senza la verità.
La risposta delle autorità egiziane di fronte all’accelerazione data dalla Procura di Roma a inizio dicembre, quando ha iscritto nel registro degli indagati alcuni funzionari dei servizi segreti del Cairo è stata quella di prendere in ostaggio Amal Fathy, la moglie del presidente della Commissione egiziana per i diritti e le libertà.