Ansou ha anche un profilo Instagram. Gli hanno insegnato che il primo passo per diventare un calciatore è crederci, del tutto, anche se giochi in un campo in cui le righe se le sono mangiate le erbacce e il fondo è duro come un dente. Allora eccolo lì, Ansouneymar che sorride nello spogliatoio, abbracciato ai compagni che lo chiamano fratello. Mercoledì è tornato in campo per l'allenamento: corse, torello e la partitella finale su un campo di granita di fango. Ma Ansou la stanchezza non la sente, no: gioca il sabato con la squadra Juniores e la domenica con la prima squadra. Non ha paura di correre: a 19 anni è partito dal Senegal, ha corso per terra e per mare fino al primo stop a Lampedusa. Poi Castelnuovo di Porto. Ansou gioca nella Castelnuovese, la squadra di Castelnuovo di Porto. Sì, quel Castelnuovo di Porto che è il primo esperimento di deportazione senza meta deciso dal ministro dell'inferno con il suo decreto Sicurezza. E per sapere esattamente cosa sia questo decreto che dovrebbe renderci più sicuri basta chiederlo a Ansou Cissè che nell'innocenza dei suoi 19 anni ti racconta che era arrivato due anni fa e ora gli sembra un miracolo che tutti gli vogliano bene. Poi, nei giorni scorsi, i suoi amici del Cara di Castelnuovo di Porto hanno iniziato a fare le valigie. Destinazione: sconosciuta. Conta solo andarsene. Dove? Non si sa. È un po' come correre sulla fascia senza crossare e senza accentrarsi verso la porta, finendo di corsa tra alla linea di fondo con la palla in mezzo ai piedi. Senza senso, dice lui. In termini calcistici si direbbe che è stato ceduto a nessuno. Gli mancano otto mesi per sapere se è stato accolto il suo ricorso per la richiesta di asilo politico. Otto mesi sono un campionato intero. La sua storia però ha solleticato la stampa locale, quella che ha bisogno di un po' di commozione facile per condire la cronaca che di questi tempi è terribile già così. Eppure, a Castelnuovo di Porto, se si avesse la voglia di ascoltare, hanno tutti una loro storia, anche quelli che non giocano a calcio e che non segnano gol, anche quelli che semplicemente sono finiti per essere solo le ferite che hanno addosso e che a differenza di Ansou non sono capaci di produrre speranza, quelli a cui si è rotta la ghiandola del futuro. Ma la storia di Ansou serve, come servirebbe conoscere tutte le loro storie, perché se la smettessero di essere niente sarebbe molto più difficile farcirli solo dei nostri pregiudizi. E sentirci assolti. Buon venerdì.

Ansou ha anche un profilo Instagram. Gli hanno insegnato che il primo passo per diventare un calciatore è crederci, del tutto, anche se giochi in un campo in cui le righe se le sono mangiate le erbacce e il fondo è duro come un dente. Allora eccolo lì, Ansouneymar che sorride nello spogliatoio, abbracciato ai compagni che lo chiamano fratello. Mercoledì è tornato in campo per l’allenamento: corse, torello e la partitella finale su un campo di granita di fango. Ma Ansou la stanchezza non la sente, no: gioca il sabato con la squadra Juniores e la domenica con la prima squadra. Non ha paura di correre: a 19 anni è partito dal Senegal, ha corso per terra e per mare fino al primo stop a Lampedusa. Poi Castelnuovo di Porto. Ansou gioca nella Castelnuovese, la squadra di Castelnuovo di Porto. Sì, quel Castelnuovo di Porto che è il primo esperimento di deportazione senza meta deciso dal ministro dell’inferno con il suo decreto Sicurezza.

E per sapere esattamente cosa sia questo decreto che dovrebbe renderci più sicuri basta chiederlo a Ansou Cissè che nell’innocenza dei suoi 19 anni ti racconta che era arrivato due anni fa e ora gli sembra un miracolo che tutti gli vogliano bene.

Poi, nei giorni scorsi, i suoi amici del Cara di Castelnuovo di Porto hanno iniziato a fare le valigie. Destinazione: sconosciuta. Conta solo andarsene. Dove? Non si sa. È un po’ come correre sulla fascia senza crossare e senza accentrarsi verso la porta, finendo di corsa tra alla linea di fondo con la palla in mezzo ai piedi. Senza senso, dice lui.

In termini calcistici si direbbe che è stato ceduto a nessuno. Gli mancano otto mesi per sapere se è stato accolto il suo ricorso per la richiesta di asilo politico. Otto mesi sono un campionato intero. La sua storia però ha solleticato la stampa locale, quella che ha bisogno di un po’ di commozione facile per condire la cronaca che di questi tempi è terribile già così.

Eppure, a Castelnuovo di Porto, se si avesse la voglia di ascoltare, hanno tutti una loro storia, anche quelli che non giocano a calcio e che non segnano gol, anche quelli che semplicemente sono finiti per essere solo le ferite che hanno addosso e che a differenza di Ansou non sono capaci di produrre speranza, quelli a cui si è rotta la ghiandola del futuro.

Ma la storia di Ansou serve, come servirebbe conoscere tutte le loro storie, perché se la smettessero di essere niente sarebbe molto più difficile farcirli solo dei nostri pregiudizi. E sentirci assolti.

Buon venerdì.