Gli accordi di Schengen avrebbero dovuto favorire la libera circolazione dei cittadini. Ma, sin dal 2000, nell’Unione europea si è realizzato un reticolo di barriere interne. Frontiere che selezionano gli stranieri in base a colore della pelle, fede religiosa e ricchezza esibita. Anche in virtù del regolamento europeo di Dublino sul diritto d’asilo

Sono passati 42 anni da quando David Bowie, folgorato sulla via di Berlino, raccontava dei due amanti che si incontravano sotto una torretta nei pressi del muro per baciarsi, nella canzone “Heroes”. Il crollo di quel muro che aveva spezzato l’Europa portò molti a immaginare un mondo senza frontiere, uno spazio nuovo in cui il diritto di muoversi venisse considerato fondamentale. Eppure già nel 1985, quattro anni prima del fatidico crollo, in una città al confine fra Germania, Francia e Lussemburgo, Schengen, si era disegnato un futuro affatto roseo. Si definiva quello che appunto venne chiamato “Acquis di Schengen”, un insieme di norme volte a rimuovere gli ostacoli alla circolazione fra gli abitanti dei tre Paesi, più Belgio e Olanda.
Negli anni successivi, man mano si sono aggiunti i restanti Paesi Ue e alcuni neanche interni all’Unione come Svizzera, Islanda, Norvegia, con modalità fra loro diverse. Via le dogane allora? Neanche a parlarne. Questa libertà di movimento era ed è valida unicamente per chi è cittadino di uno dei Paesi in questione, o per chi ha i «titoli di viaggio necessari». Per chi arriva da fuori si sono creati negli anni strumenti restrittivi tanto da parlare sin dai primi anni 2000 di “Fortezza Europa”. E, col passare del tempo, con l’alibi delle instabilità crescenti e dei disordini soprattutto nei Paesi vicini, Nord Africa, Medio Oriente, Est Europa, accanto alle frontiere esterne si è realizzato un reticolo perennemente in evoluzione di barriere interne, fra singoli Paesi Ue, che selezionano in base al colore della pelle, al grado di benessere mostrato, al punto da far immaginare oggi la stessa Europa, vista dall’alto, come un gigantesco zoo per esseri umani, con una parte che può tranquillamente e senza ostacoli transitare da una gabbia all’altra e una parte che viene perennemente controllata e spesso respinta. Muri veri e propri, reticolati, fili spinati, guardie che controllano per 24 ore al giorno chi transita da un posto all’altro e poi leggi o regolamenti che sovradeterminano il tutto. E, ironia della sorte, il primo ostacolo, quello più invisibile ma ostativo a chi arriva in Europa è un regolamento (non lo si chiami trattato) che porta il nome della capitale di un Paese, l’Irlanda, che non è mai entrata nella cosiddetta “area Schengen”, ci si riferisce al Regolamento di Dublino. Proposto originariamente per impedire che un richiedente asilo facesse domanda per ottenere tale status in diversi Paesi, per poi accettare il responso più favorevole, è divenuto immediatamente…

L’articolo di Stefano Galieni prosegue su Left in edicola dal 12 aprile 2019


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