Federico Gervasoni, giornalista freelance classe 1991, collaboratore di Left, da tempo è in prima linea nel raccontare e denunciare il ritorno sulla scena politica bresciana di forze di estrema destra. Per il suo impegno, ha ricevuto minacce e intimidazioni. Ora, ne “Il cuore nero della città” (Liberedizioni, 2019), raccoglie in un’inchiesta il frutto di anni di lavoro sul campo. Vi proponiamo qui la sua presentazione dell’opera
“Il cuore nero della città” nasce in un appartamento di Brescia dove da “ragazzo di provincia”, mi ero trasferito in affitto. Ho scritto questo libro con un unico intento letterario: raccontare uno spaccato maggiormente complesso di ciò che può invece trasmettere un articolo di giornale. In passato, mi è stato proposto di firmare le mie inchieste sul neofascismo con uno pseudonimo. Ho sempre rifiutato. Voglio che la mia firma significhi responsabilità e soprattutto scelta. Sfida talvolta. Quelle di un giornalista freelance di ventotto anni e alla ricerca di vicende che lasciano il segno. Viviamo in un momento storico in cui la difficoltà dell’editoria è immensa. La crisi taglia ovunque e non risparmia nessuno. Forse l’online è il futuro a patto che si faccia vera informazione d’approfondimento oppure si scrivano pezzi coraggiosi.
Sono trascorsi dieci mesi dal 31 luglio 2018, ovvero da quando, sulle pagine de La Stampa uscì il mio reportage dedicato alla ricostituzione di Avanguardia nazionale. Tra i complimenti dei colleghi più esperti, non posso però scordare le voci insistenti di chi etichettava il tutto come pura strumentalizzazione per procurarmi notorietà. Mio malgrado, poco dopo sono finito in un vortice di insulti, minacce e intimidazioni.
È tremendo da spiegare ma nel nostro Paese chi si occupa di estrema destra diventa automaticamente un bersaglio da colpire e affondare. Da quasi un anno, il reparto Digos della Questura di Brescia, garantisce la mia sicurezza. Più volte infatti i neofascisti hanno provato a farmi tacere. Eppure, non mi hanno distrutto. Non ci sono mai riusciti. Resisto, viaggio, scrivo, parlo agli incontri pubblici, vivo. C’è poi da dire una cosa. Nessuno mi obbliga a fare quello che faccio. Proprio perché sono freelance, spesso le storie da approfondire e raccontare le scelgo io. Poi, non lo nego: questa professione per me ha senso nel momento in cui informa, suscita emozioni e apre la testa. Ho sempre ritenuto il giornalismo come un dovere civile e morale.
Ritengo il mio lavoro un vaccino contro l’ignoranza e le fake news, necessario affinché l’opinione pubblica venga avvertita. Si chiama giornalismo libero ed è quello che solitamente non piace e dà fastidio. Quello portato avanti da chi davanti alle minacce non si arrende. Non ho mai risposto per scelta a tutte le feroci e infondate accuse innescate nei miei confronti. Piuttosto, ho preferito continuare a scrivere, raccontare e soprattutto indagare. In Italia si dà per scontata la libertà d’espressione, in realtà è costantemente sotto tiro. Negli ultimi quattro anni ho frequentato ambienti dove l’ultradestra trova un terreno assai fertile di crescita.
Il cuore nero della città è un volume duro e violento proprio perché la violenza è parte del mondo che racconta. Ho trascorso parecchio tempo con teste rasate provenienti da posti diversi. Ci ho messo tanto ma alla fine ho strappato la loro fiducia. Preziosa e soprattutto necessaria per riordinare le idee e iniziare un percorso. Era fondamentale che il libro non si trattasse di una grossa operazione predatoria, composta unicamente da informazione raccolte da altri. Detesto infatti quel tipo di giornalismo che fa totale affidamento a ciò che comodamente si trova rovistando tra i social.
Del resto, non puoi scrivere di CasaPound se non andrai mai ad una manifestazione delle tartarughe frecciate. In questi lunghi quattro anni trascorsi a studiare l’estrema destra, mi è capitato di spedire un articolo in strada, a bordo di un pullman di ritorno da un corteo non autorizzato, oppure seduto sui gradoni di uno stadio. Più volte sono finito nel mezzo di concerti d’area, scontri, riunioni e momenti nostalgici.
Il cuore nero della città, spiega un fenomeno disomogeneo e quindi pericoloso. Racconta di retroscena, trame politiche e inchieste. Sono tutte storie che occorre evidenziare per fare memoria e per illuminare quella parte informativa del Paese che i volti neri vorrebbero tenere al buio. Brescia, è medaglia d’argento per l’eroica Resistenza al nazifascismo. Nel liceo statale, dedicato alla poetessa Veronica Gambara, dove mi sono diplomato nove anni fa, la targa all’ingresso della biblioteca ricorda Clementina Calzari Trebeschi, l’insegnante uccisa a 31 anni il 28 maggio 1974 nella strage fascista di piazza della Loggia, costata otto vittime e centodue feriti.
Oggi, nel 2019, Brescia è diventata il luogo della convivenza, dell’accoglienza e non della contrapposizione. A certe persone le brutalità e il dolore degli anni Settanta non hanno insegnato proprio nulla. La lotta al neofascismo è una lotta a oltranza, loro con la forza e le minacce, noi con la cultura e l’informazione. L’essenza del mio compito si riassume meglio in una frase: scrivere qualcosa che qualcuno non vorrebbe venisse pubblicato. Il cuore nero della città è soprattutto questo.