ArcelorMittal minaccia di chiudere gli impianti se il governo non cambierà idea sull’abolizione del salvacondotto per l'azienda. Un pasticcio firmato Di Maio, per sfuggire dalle proprie responsabilità

La data è il 6 settembre. ArcelorMittal annuncia di essere pronta ad uscire dall’Ilva se il governo non cancellerà il decreto crescita annunciato da Di Maio a Taranto il 25 giugno scorso, che revocherebbe l’immunità penale – salvacondotto che ha già fermato le inchieste della Procura -, prevista per l’azienda indiano-lussemburghese dal cosiddetto decreto Ilva del 2015. Sul tema si dovrà esprimere ad ottobre anche la Corte costituzionale, chiamata a verificare la costituzionalità della norma su istanza del gip di Taranto, Benedetto Roberto.

Nel frattempo, senza una soluzione al problema della protezione legale, l’ex stabilimento pugliese potrebbe chiudere il 6 settembre, quando entrerà in vigore la legge che ha abolito l’immunità: così ha minacciato l’amministratore delegato di ArcelorMittal Europa, Geert Van Poelvoorde, dopo una conferenza di Eurofer. «Il governo – ha dichiarato ancora Van Poelvoorde – continua a dire di non preoccuparci, che troverà una soluzione, ma finora non c’è stato niente di risolutivo. Quindi il 6 settembre l’impianto chiuderà. Abbiamo ancora due mesi, spero che l’esecutivo trovi una soluzione, siamo aperti a discutere».

Continuano dunque i voltafaccia del M5s. Dopo essersi presentati alle scorse elezioni manifestando la volontà di chiudere l’Ilva e bonificare la zona industriale, e poi aver firmato invece il 6 settembre 2018 un accordo con la nuova proprietà dell’acciaieria per mantenere 10.700 posti di lavoro (non molto diverso da quello precedente, siglato dall’ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda il 10 maggio del 2018, ma bocciato dai sindacati), adesso il movimento fa un passo indietro, nel maldestro tentativo di recuperare consensi tra i cittadini tarantini delusi dall’accordo, e paventa l’ipotesi di eliminare una delle condizioni che ArcelorMittal considera indispensabili per mantenere attivo il polo siderurgico.

Secondo l’azienda indiano-lussemburghese, la norma metterebbe a rischio la gestione dell’acciaieria perché farebbe saltare le garanzie legali necessarie per l’attuazione del risanamento ambientale: «Noi non siamo in conflitto con il governo, non sappiamo perché faccia quello che fa, avrà le sue ragioni – ha spiegato Van Poelvoorde – ma diciamo che in queste condizioni non si può andare avanti». Il dirigente sottolinea: «Non posso mandare i miei manager lì ad essere responsabili penalmente», in una situazione già fuori norma perché l’impianto è sotto sequestro. «Allo stesso tempo il governo ci dice che non vuole che ce ne andiamo, ma vuole che restiamo, e ci dicono che risolvono il problema. Noi abbiamo scritto un articolo molto chiaro per dire che il 6 settembre, quando entra in vigore questa legge, l’impianto si fermerà se nulla sarà successo».

«Io ho proposto ad Arcelor Mittal, e continuerò a proporlo nei prossimi giorni, una serie di tutele alternative che consentiranno loro di andare avanti con lo stabilimento – è stata la replica del ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio -. Loro lo stabilimento lo stanno mettendo a norma e questo dimostra tutta la loro buona fede. Sono d’accordo che Arcelor Mittal non può pagare per gli errori del passato ma nessuno potrà mai dire allo Stato che chiude se il Parlamento non gli fa una legge». Per confrontarsi con ArcelorMittal sul tema, inoltre, Di Maio ha convocato un tavolo tecnico al Mise per il 9 luglio.

L’annuncio dell’Ad Van Poelvoorde è arrivato in contemporanea ad un comunicato stampa dei sindacati, che chiedono ad Arcelor di bloccare le procedure per l’avvio della cassa integrazione nell’ex manifattura Ilva (prevista da luglio per 1.400 operai). L’intenzione di procedere con la misura è stata comunicata dall’azienda lo scorso 5 giugno, con la precisazione che il provvedimento sarebbe solo temporaneo, per fare fronte alle difficili condizioni in cui versa il mercato dell’acciaio – a maggio si era decisa la riduzione della produzione primaria in Europa, quella di Taranto, nello specifico, è stata rallentata da 6 a 5 milioni di tonnellate.

Nel frattempo, con una manifestazione per le vie del capoluogo, il 24 giugno numerosi tarantini hanno manifestato la loro delusione per le promesse disattese dell’esecutivo giallonero. «Vigliacchi! I bambini di Taranto vogliono vivere», si leggeva in uno dei numerosi striscioni. «Sul contratto di governo c’è scritto: chiusura progressiva delle fonti inquinanti – ha dichiarato Luca Contrario del comitato “Giustizia per Taranto” all’agenzia Dire -. Noi, a oggi, non abbiamo capito qual è questa chiusura delle fonti inquinanti, qual è il cronoprogramma, quali sono le fasi e quali le responsabilità. A dimostrazione che questo governo non è credibile, parla per slogan e noi siamo stanchi».

Ilva, le tappe della crisi
Ma facciamo un passo indietro. L’Ilva è, storicamente, la maggiore impresa siderurgica italiana ed europea. Dopo la Seconda guerra mondiale, con l’attuazione del piano Marshall, in un progetto di riduzione dei costi di produzione dell’acciaio e di modernizzazione degli impianti, fu costruito il centro siderurgico di Taranto. L’Ilva, nel 1995, fa acquistata interamente dal Gruppo Riva – primo gruppo italiano nel settore -, ed è nei primi anni 2000 che ci si accorge dei danni provocati dai suoi stabilimenti. La diffusione dell’ideale comunitario di “sviluppo sostenibile” e la crescente sensibilità dell’opinione pubblica riguardo l’ambiente, portarono l’attenzione sulla nocività delle emissioni di diossina e benzo(a)pirene – una delle prime sostanze di cui si è accertata la cancerogenicità –  nell’atmosfera da parte delle manifatture di Genova e Taranto, responsabili di inquinamento e del forte sviluppo di patologie tumorali e neurologiche.

Per arginare il problema, fu chiuso lo stabilimento di Genova nel 2005 e sequestrato quello di Taranto nel 2012, con sulle spalle 11.550 morti in 7 anni per cause respiratorie e cardiovascolari. Fu la Corte europea (di Lussemburgo) a condannare l’Italia nel 2011, per infrazione della legge comunitaria. L’Italia si sarebbe resa inadempiente alla Direttiva Ippc sulla prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento, che prescrive l’obbligo di dotarsi di Autorizzazione integrata ambientale (Aia) da parte delle attività industriali ad alto potenziale inquinante, nonché alle Direttive sulla sicurezza e salute sul luogo di lavoro e sulla responsabilità ambientale. Mancava, inoltre, un censimento aggiornato di tutti gli impianti a rischio. Vennero arrestati, in questa occasione, i vertici dell’Ilva e della manifattura di Taranto: Emilio Riva, Nicola Riva, Luigi Capogrosso, Ivan Di Maggio e Angelo Cavallo, con l’accusa di disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose e inquinamento atmosferico.

Nel 2013, tuttavia, il Governo Letta concesse la ripresa delle attività dell’azienda disponendone il commissariamento straordinario, poiché la chiusura dello stabilimento avrebbe avuto un impatto economico negativo di circa 8 miliardi per anno. Dopo la riapertura, comunque, continuarono le denunce di cittadini e ong contro le esalazioni inquinanti provenienti dall’acciaieria. La Commissione Ue invitò, allora, l’Italia ad adeguarsi alla nuova Direttiva Ied sulle emissioni industriali e i grandi impianti di combustioni, sostitutiva della Ippc, dopo che gli esami evidenziarono ancora un forte inquinamento dell’aria, delle acque e del terreno, sia nell’area industriale dell’Ilva, sia nelle zone abitative adiacenti alla città di Taranto. Condizioni mai migliorate.

L’azienda, già in dissesto, fu posta in Amministrazione straordinaria dal gennaio 2015 secondo la legge Marzano – contenente misure per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza -; i commissari straordinari si sarebbero occupati di risanare l’Ilva, sia a livello ambientale che economico, per poi rivenderla. Nel 2017, ArcelorMittal ha vinto la gara pubblica per assumere il controllo parziale dell’acciaieria, con un decreto siglato all’epoca con l’allora ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda. Così l’azienda indiana-lussemburghese ha affittato l’impianto per poi acquisirlo, e ha avviato una fase negoziale con i commissari straordinari.

Lo scorso settembre – in seguito ad un secondo accordo con il successore di Calenda, Luigi di Maio – il gruppo indiano aveva presentato un piano industriale con investimenti da 4,2 miliardi di euro, secondo cui si sarebbe impegnata ad assumere ben 10.700 lavoratori, oltreché ad avviare entro il 2020 dei lavori per la copertura dei parchi minerari, responsabili della diffusione delle polveri. Accordo che rischia di essere ora messo in crisi.

I danni all’ambiente causati negli anni di operatività dell’impianto sono comprovati, la Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo il 24 gennaio si è espressa di nuovo favorevolmente nei confronti di un ricorso di circa 180 tarantini accogliendo la richiesta e condannando l’Italia per non avere adeguatamente garantito la protezione ambientale e della salute, dunque l’immunità penale resta conditio sine qua non per l’acquisizione dell’acciaieria da parte di ArcelorMittal.