Quando nel 1992, in vista del primo vertice mondiale di Rio, si è considerato il patrimonio idrico come bene economico, si è determinato un sistema di disuguaglianze e di indebitamento. Per questo motivo adesso occorre rilanciare una mobilitazione mondiale

Ri-pensare l’acqua è urgente e necessario per liberare il futuro dell’umanità dalle catene della disuguaglianza e dell’ingiustizia. Specie oggi nell’era dell’antropocene, chiamata cosi dagli scienziati perché le condizioni di vita degli abitanti della Terra sono oramai influenzate principalmente dall’azione degli esseri umani e non più dalla natura.

Una delle catene al consolidamento della quale la maniera di pensare l’acqua ha fortemente contribuito è stata creata allorché la comunità internazionale ha affermato a Dublino nel 1992, in preparazione del primo vertice mondiale della Terra a Rio, che l’acqua doveva essere considerata un «bene economico» e non più un bene sociale, un bene comune disponibile per tutti. Si è trattato di una inversione di rotta epocale nella narrazione dell’acqua. Secondo i principi dell’economia capitalista di mercato dominante, un bene economico è tale allorché è oggetto di rivalità per la sua appropriazione ed il controllo dei suoi usi e, quindi, comporta processi di esclusione.

Aver ridotto l’acqua a principalmente un bene economico, a merce, in linea con la cultura generale utilitarista della vita, ha avuto due gravi conseguenze negative. Anzitutto, la comunità internazionale ha legittimato l’idea che l’accesso all’acqua buona per usi umani è possibile solo…

L’articolo di Riccardo Petrella prosegue su Left in edicola dal 12 luglio 2019


SOMMARIO ACQUISTA