L’istruzione pubblica è sotto l’attacco di Regioni voraci, incapaci di pensare un mondo fatto di uguaglianza e solidarietà, di un patrimonio collettivo di diritti. Ma è stata proprio la scuola a reagire per prima alla logica regionalistica e a rompere il silenzio

Ci stanno sottoponendo ad un’attività inedita, in un Paese democratico: esercizio all’indagine. L’autonomia differenziata, cavallo di battaglia della Lega, per nulla sgradito al Pd (in particolare nella versione solo apparentemente soft richiesta dal governatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini), inserita al punto 20 (per inconsapevolezza?) del “contratto di governo” (sic!) dal M5s, è top secret. Da quando, il 28 febbraio 2018, esautorato da qualsiasi attività che non fosse il disbrigo degli affari correnti (si era a 4 giorni dalle elezioni) il governo Gentiloni (Pd) firmò le pre-intese con Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, sono stati fatti enormi passi avanti verso la realizzazione del provvedimento, ispirando ogni fase ad una precisa condizione: tenere alla larga gli “intrusi” (i cittadini), fare in modo che le riunioni fossero segrete (ce ne sono state un centinaio circa), che i media restassero sottotono, che le carte fossero accessibili a pochissimi. Missione compiuta. Senza parlare di altri documenti mai citati nelle baruffe chiozzotte tra “alleati” di governo e nelle rassicuranti parole del premier, garante del processo: il parere stroncatorio del dipartimento affari giuridici e legislativi; l’opinione nettamente contraria dell’ufficio parlamentare di bilancio. Quisquilie, dettagli.

Ma caparbiamente Massimo Villone, Gianfranco Viesti, Marco Esposito e pochi altri hanno optato per la contro-informazione (cioè, per l’informazione): lavorare indefessamente per far emergere le verità nascoste del e dal governo gialloverde e dalle regioni coinvolte; contenuti, numeri, (im)praticabilità, contraddizioni, violazioni che quel processo andava negoziando nelle segrete stanze. Le carte sono state rese note solo dal sito Roars, che in febbraio e in luglio è meritoriamente riuscito a pubblicare le bozze di intesa nella loro redazione precedente di un paio di mesi e dunque – dato l’indefesso lavorio dei nostri – presumibilmente poi rivisitate. Eppure, non stiamo parlando di un fatto tra privati; e neppure stiamo raccontando trattative tra servizi segreti; ma una vicenda che, se e quando dovesse andare in porto, sfigurerebbe completamente il volto dell’Italia “una e indivisibile”; renderebbe principi e diritti costituzionali poco più che orpello retorico; consegnerebbe al certificato di residenza la possibilità di accedere ai diritti universali; cancellerebbe decenni di lotte e di conquiste dei lavoratori. Non abbastanza – secondo chi ci governa – per considerare tutto ciò interesse generale. Pochi milioni di cittadini hanno potuto pronunciarsi sulla vicenda; quelli interpellati dai referendum politici di Veneto e Lombardia. Un’anteprima delle differenze: ai restanti 45 milioni quel diritto non è stato riservato; ma, addirittura, si dice loro: non disturbate i manovratori.

Tra un tweet e una diretta Fb (questo il tenore degli atti istituzionali nella agonica fase della democrazia che stiamo attraversando), 23 materie che riguardano la nostra vita quotidiana (dall’istruzione alle infrastrutture, dalla sanità all’ambiente, dai beni culturali alla ricerca scientifica, alla sicurezza sul lavoro) rischiano di finire nelle mani di regioni voraci, incapaci di pensare un mondo fatto di uguaglianza e solidarietà, di un patrimonio collettivo di diritti e appartenenza comune; dal prima gli italiani al prima i veneti/lombardi/emiliani il passo è breve. La posta in gioco è ricca, sia dal punto di vista economico che del potere politico: un mix esplosivo di avido egoismo, eugenetica reddituale; paghiamo più tasse e quindi le tratteniamo e gestiamo noi; esigiamo più..

L’articolo di Marina Boscaino prosegue su Left in edicola dal 26 luglio 2019


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