Repubblicano, scrisse il trattato sul potere assoluto da cinque secoli più studiato al mondo. Assertore della cattiveria originaria degli esseri umani, immaginò un Principe capace di agire per il bene comune. Ateo, teorizzò l’importanza di una religione civile a fondamento delle repubbliche. Convinto della naturale finitezza della vita umana e degli Stati, lottò con tutto se stesso per forzarne i limiti. Frequentatore dei grandi d’Italia e d’Europa, visse e morì in povertà. Il suo capolavoro, demonizzato, fu messo all’indice e dato alle fiamme, mentre le sue idee erano piegate a giustificare la gesuitica dottrina della Ragion di Stato, al punto che i termini ‘machiavellico’ e ‘machiavellismo’ designano tuttora intenzioni opposte al pensiero da cui furono derivate. Per quindici anni Segretario della Repubblica, e dopo la caduta scrittore e filosofo inserito nell’orizzonte del Rinascimento, il grande fiorentino ha tuttavia continuato a ispirare i maggiori pensatori moderni, da Spinoza a Rousseau fino a Gramsci, che nel suo Principe vide una «fantasia concreta» capace di suscitare la volontà collettiva di un popolo disperso. Ma chi fu veramente Niccolò Machiavelli? La sua biografia, in tensione tra passione politica e vocazione poetica, tra dissimulazione e verità, è l’indispensabile contrappunto per comprendere le sue opere, quelle sue idee «eccessive» tese, nella crisi del Rinascimento, a dilazionare la fine della libertà che dal 1494 minacciava Firenze e l’Italia. «Castellucci» e «stravaganze», che si sono rivelate vere scoperte dell’arte politica. È questa la linea interpretativa di Michele Ciliberto, presidente dell’Istituto nazionale di studi sul Rinascimento che, tra i massimi interpreti di Giordano Bruno, nel suo nuovo lavoro Niccolò Machiavelli. Ragione e pazzia (Laterza) ci sorprende con una lettura originale e avvincente. Ne parliamo con lui.
Come è avvenuto il passaggio da Bruno a Machiavelli, entrambi formati sul materialismo di Lucrezio, nei quali lei evidenzia risonanze assai più forti che con il pensiero di Spinoza?
In verità bisognerebbe parlare di passaggio da Machiavelli a Bruno, piuttosto che da Bruno a Machiavelli. Mi sono laureato sulla fortuna di Machiavelli con Eugenio Garin, che mi spinse a preparare un lessico di Giordano Bruno che poi è stato pubblicato nel 1979. Devo dire però che ho sempre sentito Bruno e Machiavelli in notevole sintonia, ed è anzi credo uno dei punti di originalità di questo mio libro aver mostrato quanto Bruno debba a Machiavelli. Sicuramente è stato fondamentale per entrambi Lucrezio, che per me è il vero maestro di Machiavelli; e l’uno e l’altro, pur condividendone temi e motivi, sono distanti da Spinoza. Ma qui il problema è di ordine generale e riguarda i rapporti tra Umanesimo, Rinascimento e mondo moderno, al quale appartiene Spinoza, a differenza di Bruno e di Machiavelli. È un altro elemento su cui ho insistito nel mio libro, staccando Machiavelli, come avevo già fatto per Bruno, dalle genealogie costruite dai “moderni”, i quali hanno trasformato sia Bruno che Machiavelli in loro “precursori”. Ma le cose sono assai più complicate.
Ragione e pazzia, emblematico sottotitolo del libro, segna la distanza dall’idea umanistica dell’uomo quasi deus di Ficino e Pico della Mirandola e il superamento del giudizio crociano della scoperta dell’autonomia della politica come arte del compromesso. Un Machiavelli audace e passionale che, tra politica e amori, fino all’ultimo gioca a scacchi con la fortuna?
Credo che sia necessario liberarsi da una antica immagine del Rinascimento come mondo della serenità, dell’armonia, incentrato sul primato dell’uomo. Nell’Umanesimo c’è stata anche questa tendenza, rappresentata appunto da Ficino e Pico; ma ce n’è anche un’altra che si esprime nell’esperienza e negli scritti di Alberti, Machiavelli, Guicciardini, Pomponazzi nei quali è presentata un’immagine drammatica, anzi tragica, del destino dell’uomo ed anche delle civiltà. Se c’è un’idea alla quale Machiavelli è totalmente estraneo…