La sentenza con la quale l’11 settembre scorso Vincenzo Paduano è stato definitivamente condannato all’ergastolo suona come una conferma del valore simbolico che questa storia ha assunto, fin da quando la notizia del terribile omicidio della bella e giovanissima Sara Di Pietrantonio cominciò a diffondersi.

Basti pensare che il movimento internazionale Non una di meno, che ha segnato la nascita di una nuova stagione femminista in Italia, dopo il profondo torpore nel quale era caduto lo slancio che aveva animato le lotte degli anni settanta, si è sviluppato nel nostro Paese nel giugno 2016, subito dopo la morte di Sara, come reazione all’ennesimo femminicidio letto in chiave di delitto passionale. E, per una volta, la domanda di cambiamento che proviene dalla società civile sembra trovare una risposta. 

Una risposta che, riconoscendo il ruolo determinante dello stalking, oltre a dettare un nuovo orientamento giurisprudenziale di fondamentale importanza in tema di violenza di genere, rappresenta una speranza e un inizio di risarcimento, non solo e tanto per la famiglia e gli amici di Sara che nessuno potrà mai veramente risarcire, ma per le donne e per i minori vittime di abusi, colpiti da una forma di violenza, tecnicamente definita vittimizzazione secondaria, agita dalle istituzioni, dalla società, dalla cultura, cioè proprio da chi sarebbe chiamato a difendere e proteggere le vittime di violenza. Non è difficile immaginare la durezza dell’impatto con il sistema giudiziario su chi ha subito gravi lesioni fisiche e psichiche, a partire dalla necessità di riferire ad estranei la propria dolorosa esperienza. Ma il peggio comincia quando la vittima viene messa nelle condizioni di dover dimostrare la veridicità del suo racconto, partendo dal presupposto che potrebbe mentire. Non potrò mai dimenticare la rabbia disperata con cui una ragazzina di quattordici anni che aveva subito uno stupro da parte di un gruppo di ragazzi mi raccontava gli interrogatori, durante i quali di quando in quando le venivano chiesti di nuovo gli orari precisi degli eventi che aveva già ricostruito, con l’intento evidente di trovare contraddizioni e incoerenze. Poi c’è sempre in agguato il giudizio morale, che finisce spesso per coincidere con una vera e propria colpevolizzazione della vittima, basata sul principio a priori che la violenza debba essere in qualche modo conseguenza di un suo comportamento. E ancora, molto spesso le vittime assistono impotenti alla sottovalutazione della violenza che hanno subito, perfino da parte del personale medico che presta i primi soccorsi, ma soprattutto, come si legge tristemente nelle cronache, quando denunciano i propri persecutori e non ottengono protezione. Al di là delle reali carenze strutturali e di formazione all’interno del sistema giudiziario e sanitario, che sono oggetto di politiche di difficile attuazione è evidente che il nucleo più profondo della dinamica della rivittimizzazione è la negazione della violenza. Rileggere Primo Levi è forse più utile, per capire, che studiare la letteratura prodotta negli ultimi decenni dalla vittimologia. Perché non si tratta solo della menzogna cosciente e criminale del negazionismo, ma di negazione non cosciente, della quale la nostra cultura è intrisa, basata com’è sull’ideologia plurimillenaria secondo la quale la violenza e la distruzione sono connaturate all’essere umano. In questi giorni abbiamo visto esempi dell’una e dell’altro, nei commenti sul caso di Elisa Pomarelli, uccisa per Il Giornale dal «gigante buono» Massimo Sebastiani, che anche per Valerio Varesi di Repubblica è un uomo «sbigottito perfino da se stesso», che confessa in lacrime di aver fatto «una stupidaggine », vinto dal caldo di un pomeriggio d’agosto e da qualche bicchiere di troppo, fino a commettere «l’ennesimo femminicidio per motivi passionali». Mentre le donne continuano a morire con il solito agghiacciante ritmo, la vicenda giudiziaria del caso di Sara non è solo un lenitivo per le vittime che subiscono l’ulteriore violenza della negazione, gravissima per la disperazione e la ripetizione che induce, rispettivamente nelle vittime e nei carnefici. La storia di Sara ha fatto emergere, senza ambiguità, una verità che ha la forza innovativa di superare l’idea anacronistica e complice del delitto passionale. Una verità che può essere trovata solo con il coraggio di guardare a fondo nelle dinamiche del rapporto uomo-donna e usare un linguaggio chiaro, che «dà un nome alle cose» (come diceva Marcella Fagioli in uno degli Incontri di ricerca psichiatrica del 1997) agli «accadimenti umani» (come li definisce la Corte di Cassazione), rendendoli comprensibili. Ci si può domandare perché questo sia stato possibile in questo particolare caso. Una risposta – che nulla toglie al lavoro di tutti quelli ai quali dobbiamo questo grande risultato - è forse nell’universalità di questa storia, la stessa che le conferisce il suo valore simbolico. È la storia di due ragazzi “normali”, nella quale tanti si sono riconosciuti o hanno temuto di poter riconoscere i propri figli, col terrore di essere esposti a un pericolo mortale. Una bella ragazza piena di vita, di aspirazioni, di speranze, di impegni, di interessi, di amici, che incontra un ragazzo schivo, solitario, giovane e istruito, con un lavoro sicuro, ma già privo di aspettative. È in questa disparità, sempre più frequente nel rapporto uomo-donna, che matura la violenza. Le parole che definiscono nelle sentenze la violenza di Paduano suonano come una condanna dell’identità maschile così come si è costituita nella cultura patriarcale: un’identità razionale e anaffettiva, che riduce la donna e il bambino a esseri inferiori e il rapporto umano a possesso, priva della vitalità necessaria per il cambiamento, per le passioni, per accettare i rischi dell’amore e delle separazioni. La lotta contro la violenza non può più prescindere dalla ricerca sulla violenza “invisibile”, che nega e annulla l’identità umana dell’altro diverso, e dopo aver armato la mano del sadico e dell’assassino, lo giustifica con la “negazione della negazione”: il male che sarebbe proprio della nostra natura e dei rapporti umani.

Barbara Pelletti è psichiatra, psicoterapeuta e presidente della associazione Cassandra

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L'editoriale di Barbara Pelletti è tratto da Left in edicola dal 20 al 26 settembre

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La sentenza con la quale l’11 settembre scorso Vincenzo Paduano è stato definitivamente condannato all’ergastolo suona come una conferma del valore simbolico che questa storia ha assunto, fin da quando la notizia del terribile omicidio della bella e giovanissima Sara Di Pietrantonio cominciò a diffondersi.

Basti pensare che il movimento internazionale Non una di meno, che ha segnato la nascita di una nuova stagione femminista in Italia, dopo il profondo torpore nel quale era caduto lo slancio che aveva animato le lotte degli anni settanta, si è sviluppato nel nostro Paese nel giugno 2016, subito dopo la morte di Sara, come reazione all’ennesimo femminicidio letto in chiave di delitto passionale. E, per una volta, la domanda di cambiamento che proviene dalla società civile sembra trovare una risposta. 

Una risposta che, riconoscendo il ruolo determinante dello stalking, oltre a dettare un nuovo orientamento giurisprudenziale di fondamentale importanza in tema di violenza di genere, rappresenta una speranza e un inizio di risarcimento, non solo e tanto per la famiglia e gli amici di Sara che nessuno potrà mai veramente risarcire, ma per le donne e per i minori vittime di abusi, colpiti da una forma di violenza, tecnicamente definita vittimizzazione secondaria, agita dalle istituzioni, dalla società, dalla cultura, cioè proprio da chi sarebbe chiamato a difendere e proteggere le vittime di violenza.

Non è difficile immaginare la durezza dell’impatto con il sistema giudiziario su chi ha subito gravi lesioni fisiche e psichiche, a partire dalla necessità di riferire ad estranei la propria dolorosa esperienza. Ma il peggio comincia quando la vittima viene messa nelle condizioni di dover dimostrare la veridicità del suo racconto, partendo dal presupposto che potrebbe mentire. Non potrò mai dimenticare la rabbia disperata con cui una ragazzina di quattordici anni che aveva subito uno stupro da parte di un gruppo di ragazzi mi raccontava gli interrogatori, durante i quali di quando in quando le venivano chiesti di nuovo gli orari precisi degli eventi che aveva già ricostruito, con l’intento evidente di trovare contraddizioni e incoerenze. Poi c’è sempre in agguato il giudizio morale, che finisce spesso per coincidere con una vera e propria colpevolizzazione della vittima, basata sul principio a priori che la violenza debba essere in qualche modo conseguenza di un suo comportamento. E ancora, molto spesso le vittime assistono impotenti alla sottovalutazione della violenza che hanno subito, perfino da parte del personale medico che presta i primi soccorsi, ma soprattutto, come si legge tristemente nelle cronache, quando denunciano i propri persecutori e non ottengono protezione. Al di là delle reali carenze strutturali e di formazione all’interno del sistema giudiziario e sanitario, che sono oggetto di politiche di difficile attuazione è evidente che il nucleo più profondo della dinamica della rivittimizzazione è la negazione della violenza.

Rileggere Primo Levi è forse più utile, per capire, che studiare la letteratura prodotta negli ultimi decenni dalla vittimologia. Perché non si tratta solo della menzogna cosciente e criminale del negazionismo, ma di negazione non cosciente, della quale la nostra cultura è intrisa, basata com’è sull’ideologia plurimillenaria secondo la quale la violenza e la distruzione sono connaturate all’essere umano. In questi giorni abbiamo visto esempi dell’una e dell’altro, nei commenti sul caso di Elisa Pomarelli, uccisa per Il Giornale dal «gigante buono» Massimo Sebastiani, che anche per Valerio Varesi di Repubblica è un uomo «sbigottito perfino da se stesso», che confessa in lacrime di aver fatto «una stupidaggine », vinto dal caldo di un pomeriggio d’agosto e da qualche bicchiere di troppo, fino a commettere «l’ennesimo femminicidio per motivi passionali». Mentre le donne continuano a morire con il solito agghiacciante ritmo, la vicenda giudiziaria del caso di Sara non è solo un lenitivo per le vittime che subiscono l’ulteriore violenza della negazione, gravissima per la disperazione e la ripetizione che induce, rispettivamente nelle vittime e nei carnefici.

La storia di Sara ha fatto emergere, senza ambiguità, una verità che ha la forza innovativa di superare l’idea anacronistica e complice del delitto passionale. Una verità che può essere trovata solo con il coraggio di guardare a fondo nelle dinamiche del rapporto uomo-donna e usare un linguaggio chiaro, che «dà un nome alle cose» (come diceva Marcella Fagioli in uno degli Incontri di ricerca psichiatrica del 1997) agli «accadimenti umani» (come li definisce la Corte di Cassazione), rendendoli comprensibili. Ci si può domandare perché questo sia stato possibile in questo particolare caso. Una risposta – che nulla toglie al lavoro di tutti quelli ai quali dobbiamo questo grande risultato – è forse nell’universalità di questa storia, la stessa che le conferisce il suo valore simbolico. È la storia di due ragazzi “normali”, nella quale tanti si sono riconosciuti o hanno temuto di poter riconoscere i propri figli, col terrore di essere esposti a un pericolo mortale. Una bella ragazza piena di vita, di aspirazioni, di speranze, di impegni, di interessi, di amici, che incontra un ragazzo schivo, solitario, giovane e istruito, con un lavoro sicuro, ma già privo di aspettative.

È in questa disparità, sempre più frequente nel rapporto uomo-donna, che matura la violenza. Le parole che definiscono nelle sentenze la violenza di Paduano suonano come una condanna dell’identità maschile così come si è costituita nella cultura patriarcale: un’identità razionale e anaffettiva, che riduce la donna e il bambino a esseri inferiori e il rapporto umano a possesso, priva della vitalità necessaria per il cambiamento, per le passioni, per accettare i rischi dell’amore e delle separazioni. La lotta contro la violenza non può più prescindere dalla ricerca sulla violenza “invisibile”, che nega e annulla l’identità umana dell’altro diverso, e dopo aver armato la mano del sadico e dell’assassino, lo giustifica con la “negazione della negazione”: il male che sarebbe proprio della nostra natura e dei rapporti umani.

Barbara Pelletti è psichiatra, psicoterapeuta e presidente della associazione Cassandra

 

L’editoriale di Barbara Pelletti è tratto da Left in edicola dal 20 al 26 settembre

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