Lampedusa allarga ancora una volta le sue braccia. In occasione del sesto anniversario della strage di migranti che si consumò ad appena un chilometro dalle sue coste, alle 3.48 del 3 ottobre 2013, l’isola siciliana ospita centinaia di giovani provenienti da tutta Europa. Dietro l’hashtag #SiamoSullaStessaBarca ci sono quattro giorni di incontri che vogliono promuovere il confronto su dei temi, come l’immigrazione e l’integrazione, che per alcuni ragazzi resta ancora qualcosa di oscuro o poco chiaro. Stamattina, dopo l’incontro con i superstiti del naufragio del 2013, una marcia verso la Porta d’Europa è stata il momento di raccoglimento dedicato alla memoria di chi non è riuscito a raggiungere la vita migliore che sperava, inghiottito dal mare a pochi passi dalla salvezza. Non a caso, il 3 ottobre è stato scelto per diventare la Giornata della memoria e dell’accoglienza (riconosciuta anche dall’Unhcr), il cui scopo dovrebbe essere quello non solo di ricordare, ma anche di riflettere sul futuro dell’accoglienza nel nostro Paese. In quella notte del 2013 persero la vita 368 persone, mentre proprio oggi sono sbarcati altri 69 migranti provenienti dalla Libia, quasi tutti bengalesi e subsahariani.
Dopo quattordici mesi di politiche repressive e disumane, un nuovo ministro al Viminale fa ben sperare in un cambio di rotta sul tema delle migrazioni. Ma la situazione è ancora critica: secondo i dati forniti dall’Unhcr, 1.035 persone hanno perso la vita o risultano disperse nel Mediterraneo dall’inizio del 2019. Nonostante le vittime stiano calando (erano 1.720 nello stesso periodo del 2018), è inaccettabile che si possa ancora morire così. Mentre si discute della bontà delle azioni di salvataggio delle Ong in mare, non viene presentato alcun piano per evitare che queste operazioni si rendano necessarie. Come dichiara uno striscione del Comitato 3 ottobre presente tra i tanti alla marcia a Lampedusa di oggi, è necessario «proteggere le persone, non i confini». Il «moto d’indignazione», come lo ha chiamato la portavoce di Unhcr Carlotta Sami durante una tavola rotonda del Comitato, che si è generato dopo il naufragio del 3 ottobre 2013 non è stato sufficiente a cambiare la visione che i governi hanno dei migranti. Finché non ci si renderà conto che non ci troviamo di fronte a delle cifre, ma a delle persone che molto spesso scappano dalla guerra o che hanno visto morire o essere torturati i loro compagni di viaggio, non potremo dire di essere di fronte a un vero cambiamento.
Mentre a Lampedusa i giovani studenti europei si confrontavano sui temi legati alle migrazioni, a Bruxelles la Commissione Libe (per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni) del Parlamento Ue dava il via all’audizione di Carola Rackete, la giovane capitana tedesca che quest’estate forzò il blocco imposto da Matteo Salvini con la nave Sea Watch. Dopo una standing ovation e un minuto di silenzio per le vittime del 3 ottobre, Rackete ha attaccato l’Unione europea accusandola di averla lasciata sola in un momento di emergenza. «Dove eravate quando abbiamo chiesto aiuto attraverso tutti i canali diplomatici e ufficiali? Unica risposta ricevuta era stata quella di Tripoli. Ho dovuto entrare nel porto di Lampedusa non come atto di provocazione, ma per motivi di esigenza» ha detto alla commissione. Non è mancato un attacco alla pratica, ormai sempre più diffusa e appoggiata anche dall’Italia, di delegare il salvataggio dei migranti a Paesi come la Libia, dove una guerra e documentate pratiche disumane rendono i suoi porti non solo non sicuri, ma a dir poco pericolosi.
L’8 ottobre è in programma a Lussemburgo il Consiglio dei ministri dell’Interno dell’Unione europea. Speriamo che possa essere il momento in cui più che ai confini, si possa pensare a restare umani.