«Nella vita precedente ero il muro di Berlino. Lì la birra era più buona». La scritta, con la vernice nera, prende un paio di blocchi di cemento della barriera israeliana sulla strada palestinese che da Ramallah porta a Nablus. Il muro che Tel Aviv ha iniziato a costruire nel 2002, in piena seconda Intifada, è lungo 712 chilometri, quasi il triplo della lunghezza della Linea verde dell’armistizio del 1948 tra il neonato Stato di Israele e i Paesi arabi.
Un serpente che corre dentro la Cisgiordania e ne mangia ulteriori terre: secondo l’Onu, una volta terminato, avrà inglobato in Israele 52.600 ettari di terra palestinese, separando circa 150 comunità dai propri appezzamenti. Perché il muro, presentato 17 anni fa come indispensabile a garantire la sicurezza dei cittadini israeliani, non è mai stato terminato: della barriera (in alcuni tratti blocchi di cemento alti otto metri, il doppio di quella che divideva in due Berlino, in altri rete elettrificata e trincee) è stato realizzato meno del 70 per cento.
Interi pezzi di muro mancano, non ci sono, e diventano la via di accesso dalla Cisgiordania in Israele di decine di migliaia di lavoratori illegali palestinesi che cercano impieghi senza contratto né diritti nelle imprese agricole e i cantieri israeliani. La ragione sta nell’effettivo obiettivo del muro: non la sicurezza, ma l’ulteriore annessione di terre della Cisgiordania occupata allo Stato di Israele. Il serpente non è lineare, non corre lungo la Linea Verde, ma entra all’interno, circonda le colonie e – di fatto – le annette al territorio israeliano.
Di quei 712 km, 202 ruotano intorno a Gerusalemme. La città santa, internazionale secondo le Nazioni Unite, è sbarrata. Una colata di cemento ha separato, per la prima volta nella storia, Betlemme da Gerusalemme e provocato un crollo dell’economia palestinese: Gerusalemme Est ha visto chiudere migliaia di negozi, i clienti non ci sono più, impossibilitati a oltrepassare quell’innaturale barriera. E 90mila palestinesi residenti a Gerusalemme si sono ritrovati in Cisgiordania, con blocchi di cemento che li hanno divisi dai vicini di casa pochi metri più in là.
Tutto in nome della sicurezza. Quel muro, in tal senso, non è l’eccezione in Medio Oriente. È la regola. Il solo Israele ne ha costruiti altri quattro: uno a Gaza (“arricchito” negli ultimi mesi dall’ennesima barriera che entra in mare, un muro sottomarino e uno in superficie che parte dalla costa ed entra per 200 metri nel Mediterraneo); uno con il Sud del Libano, 11 km completati nel 2018 lungo la Linea Blu, l’armistizio tracciato nel 2000; uno con l’Egitto, 245 km in mezzo al deserto che dal 2013 impediscono l’ingresso dei richiedenti asilo africani.
E uno addirittura dentro una delle sue città: Led (in arabo, Lod in ebraico), a pochi chilometri da Tel Aviv, dovrebbe essere una città mista, abitata sia da palestinesi che da ebrei, ma a dividere i quartieri e i cittadini c’è una barriera interna che impedisce ai primi di muoversi liberamente.
Talmente tante barriere che i palestinesi ci scherzano su: «A forza di costruire muri, Israele si è chiuso dentro». Ma dietro c’è un’ideologia radicata, quella della separazione tra “noi” e “loro” che l’Europa sta facendo sua. Se non ti vedo, non esisti. E l’ha fatta sua da tempo il mondo arabo dove per un muro che cade, altri ne spuntano. Perché un muro è caduto: è quello che per 15 anni ha separato la Green Zone dal resto di Baghdad. Costruito nel cuore della capitale irachena subito dopo l’invasione americana del 2003, è stato abbattuto a fine 2018, restituendo alla città il quartiere dei ministeri, le istituzioni, le ambasciate.
A Baghdad si è festeggiato per giorni: caroselli di auto, sventolio di bandiere irachene, ragazzini curiosi di vedere cosa c’era al di là della barriera che ne ha segnato la vita e adulti felici di veder portare via il simbolo dell’occupazione statunitense.
Ma altri muri, in Iraq, esistono e resistono. Anche al tempo: quello che separa il Paese dal Kuwait, costruito dagli Stati Uniti dopo la prima guerra del Golfo, è ancora lì. E appena quattro anni fa ne è apparso un altro: tirato su dall’Arabia Saudita per impedire l’ingresso ai miliziani dell’Isis (che di finanziamenti dalle petromonarchie del Golfo ne han ricevuti). Quasi mille chilometri che corrono dalla città di Tureif, a ovest, a Hafar al-Batin a est, corredati di sistemi radar, trincee, 40 torrette militari. Un muro i sauditi lo hanno costruito anche lungo il confine con lo Yemen, nel 2003, facilmente superato dai caccia che dal marzo 2015 bombardano il Paese più povero del Golfo.
Risalendo verso Nord il panorama non cambia. Cambiano i nemici. La Turchia del presidente Erdogan, che ha fatto per anni transitare senza ansie di sorta i miliziani dello Stato Islamico, chiude la porta ai siriani in fuga. Nel 2015 a Diyarbakir, “capitale” del Kurdistan, cuore del Sud-est turco a maggioranza curda, ci indicavano i noti ritrovi di adepti del califfo al-Baghdadi pronti a trasferirsi nella vicina Siria: «Se lo sappiamo noi – ci diceva una giovane attivista – dovrebbe saperlo anche il governo». Lo sapeva. E usava la stessa tratta: l’ex direttore del quotidiano di opposizione Cumhiriyet, Can Dundar, si è fatto tre mesi di prigione (prima di un breve rilascio che gli ha permesso di fuggire in Germania) per aver documentato il trasferimento di armi dai servizi segreti turchi a gruppi islamisti nel nord della Siria.
Il muro è arrivato dopo: la guerra che Ankara ha infiammato ha costretto alla fuga dodici milioni di siriani, la metà della popolazione totale. Sette sono sfollati interni, cinque rifugiati all’estero. Di questi almeno tre milioni hanno trovato rifugio in Turchia prima che le autorità turche chiudessero le frontiere (in concomitanza con i sei miliardi di euro che la Ue ha deciso di accordare a Erdogan in cambio dello stop alle partenze verso la rotta balcanica).
I lavori per il muro con la Siria del Nord sono iniziati nel 2015, un anno prima dell’invasione turca del Nord-ovest siriano. I 764 km di barriera sono stati completati un anno fa e dividono oggi il Bakur (il Kurdistan turco) da Rojava e il suo confederalismo democratico. L’Isis può passare, la rivoluzione democratica no. Né i rifugiati: chi passa muore. Decine di persone sono state uccise dalla gendarmeria turca e chi è stato catturato vivo ha raccontato di pestaggi e torture prima di essere rispedito indietro.
Muri di cemento, di filo spinato, trincee. Chilometri in mezzo al deserto, tra le case o a fendere il mare. Barriere che dividono persone, separano culture, privano della terra. È quello che da quasi 40 anni fa il secondo muro più lungo del mondo, dopo la Muraglia cinese: è la barriera di pietre e sabbia eretta dal Marocco nel Sahara Occidentale. I lavori iniziarono nel 1980, 2.700 chilometri nel deserto a dividere i Territori occupati dai Territori liberati saharawi.
Un luogo di morte: disseminate lungo tutto il percorso ci sono milioni di mine, impossibili da individuare ed eliminare. Squadre di sminatori saharawi lo fanno ogni giorno, le individuano, le segnalano, poi le dune si muovono e chissà se l’ordigno è ancora dove sventola la bandierina bianca o la busta di plastica messa là apposta. Gli sminatori sono tra i pochi esseri umani che si avvicinano, gli altri sono i militari dell’esercito marocchino che pattugliano il “confine”.
Quel muro “invisibile” divide i Territori liberati con la lotta armata dal Fronte Polisario, il movimento di liberazione saharawi, dal resto del Sahara occidentale, illegittimamente occupato dal Marocco.
Nei Territori liberati non vive pressoché nessuno: la gran parte del popolo saharawi, 250mila persone, è da quattro decenni profugo nei campi nella vicina Algeria, gli altri vivono – repressi e controllati dalle autorità di Rabat e 250mila marocchini tra coloni e militari – nei Territori occupati. E nel silenzio del mondo, negoziati che non avanzano, referendum di indipendenza promessi e mai realizzati, il Sahara occidentale rimane l’ultima colonia d’Africa.
(da Left del 12 aprile 2019)