La prepotenza fra pari e la paura che questa può scatenare non è cosa nuova. Troviamo il temibile Franti di Cuore che, «malvagio, quando uno piange, ride. Provoca tutti i più deboli di lui e, quando fa a pugni, s’inferocisce e tira a far male». In una descrizione di più di un secolo dopo leggiamo Ian McEwan e nel suo L’inventore di sogni (Einaudi) troviamo Barry Tamerlane che «non aveva l’aria da prepotente. Non aveva una faccia brutta o lo sguardo da far paura e non girava armato. Non era grosso. Ma nemmeno era di quei tipi piccoli, ossuti e nervosi che quando fanno la lotta possono diventare cattivi. A casa non lo picchiavano né lo viziavano». Barry Tamerlane era insomma un mistero.
I tempi cambiano e cambia il profilo del bullo. Siamo nel Terzo Millennio, per i Post-Millennials la violenza arriva in rete e il termine cyberbullyng, pensato da Bill Belsey per gli specialisti, è conosciuto oggi da tutti. Secondo i dati del Centro nazionale per la prevenzione e il contrasto al cyberbullismo (CoNaCy), un ragazzo su quattro, nel nostro Paese, subisce violenza online. Le statistiche, così allarmanti da costringere due anni fa il governo a promulgare la legge 71/17 a tutela dei minori contro il cyberbullismo, giustificano le lodevoli azioni di prevenzione. Oltre alla legge, apprezzabile pure per l’intento preventivo più che sanzionatorio, oggi vantiamo una giornata di sensibilizzazione, un manifesto della “comunicazione non ostile”, innumerevoli progetti di prevenzione e “educazione alla cittadinanza digitale” promossi dal Miur dai Comuni, dalle Regioni e dalle varie associazioni.
Ritengo tuttavia che prevenzione significhi puntare sugli aspetti di ordine sociale e culturale.
Nella letteratura psicologica il cyberbullismo, benché siano evidenziate le palesi differenze, viene per consuetudine considerato la naturale evoluzione del bullismo tradizionale. In realtà, penso che, cambiando l’intera prospettiva spazio-temporale e, forse di conseguenza, l’assetto psichico degli attori, esso presenti una visione della violenza piuttosto diversa: una violenza pervasiva, subdola, spesso incontrollabile e, per questo, particolarmente angosciante. Le molestie e le intimidazioni, le minacce e le denigrazioni abbandonano aule e cortili scolastici per occupare l’etere; oltrepassano i limiti degli orari di lezione e incontri sportivi per una diffusione esasperata; ma, soprattutto, i loro artefici possono non avere un volto perché, nonostante ogni dispositivo elettronico abbia in teoria una tracciabilità, la rete rende invisibili.
La violenza online mostra il lato infido dell’assenza, dell’invisibilità e dell’incontrollabilità, fattori che rendono la vittima più vulnerabile. L’assenza del rapporto diretto con il prevaricatore, rispetto al quale eventualmente la vittima potrebbe avere una reazione di difesa immediata, e l’assenza di persone che potrebbero in ipotesi intervenire e condannare il sopruso; l’invisibilità che toglie concretezza al fenomeno e porta la vittima a pensare che tutto il mondo sia carnefice e giudicante; l’incontrollabilità della diffusione mediatica che, provocando un senso di impotenza, può annullare nella vittima ogni capacità di reagire e spingerla verso atteggiamenti di ritiro e comportamenti autolesivi.
Nel cyberbullismo si amplificano quindi i tratti di sofferenza di chi subisce. Ma non solo. Anche i tratti di violenza di chi agisce talvolta si acuiscono. La rete, nascondendo, può, paradossalmente, smascherare dimensioni più latenti di violenza che non sempre permettono di considerare il cyberbullismo come sviluppo del bullismo. È altro. Mentre il bullo ‘classico’ può agire anche da cyberbullo, non è detto che i bulli telematici possano ‘migrare’ in un profilo di bullo tradizionale che pretende la sfrontatezza di esporsi. È una forma di violenza più ineffabile. Se il bullo, per un distorto bisogno di affermarsi, di essere seguito da altri, di sentirsi importante o per un senso di rivalsa, che poi spesso si traduce nel tentativo fallito di riscattarsi da una storia fatta di delusioni reiterate, può essere mosso dalla rabbia, il cyberbullo, proprio perché può rendersi invisibile e rendere invisibile la vittima, può agire una freddezza e una insensibilità più intense.
Inoltre, il senso di distribuzione della colpa, di deresponsabilizzazione (lo fanno tutti), di attribuzione della colpa alla vittima (mi ha provocato) e di deumanizzazione (è un verme) vengono in rete amplificati e resi astratti permettendo che tanti impensati violenti si uniscano nella fatuità di un gesto che a volte ha conseguenze fatali. Si aggregano (nel senso proprio dell’etimo della parola che viene da gregge) nella stupidità della violenza contro una vittima che, di solito, possiede un plus per sensibilità e umanità. Un plus che mette in crisi perché, senza volerlo, denuncia la povertà di contenuti dell’altro, del cyberbullo. Come può accadere?
Su questo occorre chiarezza: non di rado articoli specialistici motivano i processi di giustificazione morale appena visti e il coinvolgimento di persone “non attivamente violente”, quelle “che non farebbero mai del male”, con l’idea del “contagio”, dell’emulazione e delle modalità intrusive della rete. In realtà, siccome una persona non violenta non agisce per ledere un proprio simile, bisogna supporre che questi individui che si aggregano siano altrettanto violenti e chiedersi magari perché. Chiedersi come ci si possa accanire contro una persona timida o dal temperamento mite. Chiedersi come si possa considerare “sfigato” e, quindi, perdente chi cerca di coltivare una propria personalità studiando o leggendo romanzi. Perché questi sono spesso i tratti delle vittime di bullismo. Chiedersi delle idee che dominano a proposito della natura umana, dei rapporti fra simili e promuovere uno stile culturale e un pensiero profondamente nuovi. Questa è prevenzione. A partire dall’inizio, dalla famiglia e non dalla scuola. Perché non è a scuola che nasce il bullo. Tralasciando considerazioni scontate su genitori che, dagli spalti dei campi sportivi ai gruppi whatsapp, “urlano” in costante difesa del valore “negato” dei figli e che criticano costantemente (e a volte bullizzano!) gli insegnanti, alla scuola va piuttosto riconosciuto, di essere spesso il luogo in cui i giovani si percepiscono visti e ascoltati in un mondo di adulti ciechi e sordi.
In questo senso la scuola opera nella prevenzione, nella lotta contro lo stereotipo, il pregiudizio e la discriminazione, terzetto insidioso per lo sviluppo di un pensiero autonomo che non sia la ripetizione di luoghi comuni. Accade infatti che, di fronte al malessere che la nostra società sempre più spesso manifesta, divenga scontato ragionare per stereotipi, cioè per schemi confortevoli e rassicuranti. Generalizzando però si perde di vista (e negli affetti) la complessità e la variabilità umana e aumenta, di conseguenza, l’impoverimento interiore che provoca un più o meno profondo senso di inadeguatezza e insoddisfazione che dovrà poi, affinché l’uomo viva bene con se stesso, essere eliminato, fatto sparire.
Il problema sta nell’altro e si costruisce un capro espiatorio. Si passa dallo stereotipo alla violenza del pregiudizio, dall’aspetto cognitivo (è fatto così) all’aspetto valutativo (non è valido). Il negativo che uno si ritrova dentro, quell’insostenibile senso di insufficienza e inadeguatezza, intollerabile in una società che valorizza l’arroganza, viene eliminato da sé e messo in un altro essere umano (minoranza) che ha peculiarità ben definite e diverse dal gruppo di riferimento. Si identifica così il nemico, lo “sfigato”, il perdente, la vittima del bullo e, se si passa all’azione, si agisce la violenza della discriminazione.
Combattere culturalmente contro tutto questo, proporre pensieri veri e validi sulla realtà umana, promuovere nei bambini e nei giovani interessi e passioni ma, soprattutto, privilegiare uno sviluppo fatto in autonomia che conduca ad una identità più solida, è prevenzione.
Cecilia Iannaco è psicologa psicoterapeuta, socia fondatrice di Netforpp Europa. Oltre all’attività clinica, organizza corsi di formazione per docenti