«I 40mila contagi rilevati nel mondo sono solo la punta dell’iceberg». Questo è l’ultimo allarme dell’Oms sul coronavirus, che raccogliamo prima di andare in stampa. Poco o nulla si sa, avverte l’Organizzazione mondiale della sanità, rispetto a quel che accade nei Paesi limitrofi alla Cina. «C’è un buio di casi che fa insospettire». E ancora, l’analisi di 22 studi internazionali ha rivelato che i coronavirus umani come quello della sindrome respiratoria acuta grave (Sars), della sindrome respiratoria del Medio Oriente (Mers) o i coronavirus umani endemici (HCoV) possono persistere su superfici inanimate come metallo, vetro o plastica fino a 9 giorni. È vero che possono essere eliminati seguendo normali profilassi igieniche ma certo la notizia fa un po’ impressione.
Partiamo da questi elementi per chiedere al professor Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università statale di Milano e direttore sanitario dell’Istituto Galeazzi del capoluogo lombardo, se e fino a che punto, anche qui in Italia, ci dobbiamo preoccupare. «Il virus – osserva Pregliasco – ci preoccupa in termini scientifici e soprattutto di sanità pubblica perché è un virus nuovo. I virus nuovi hanno la caratteristica di trovare tutta la popolazione mondiale suscettibile. Quindi gli interventi di sanità pubblica sia in Cina che in Italia o altrove – per esemplificare – hanno come riferimento negativo pandemie come per es. la spagnola del 1918».
Dunque, ci dobbiamo davvero preoccupare!?
La spagnola è il caso peggiore cui far riferimento per orientarsi. Non era un coronavirus ma un virus influenzale però con caratteristiche di trasmissione simili. Essendo nuovo ha colpito il 35% della popolazione e ha ucciso 40mln di persone nel mondo. Tutto ciò è stato determinato sia dalle caratteristiche specifiche del virus sia dal fatto che c’era la guerra, etc. All’estremo opposto c’è l’influenza stagionale che ogni anno colpisce una quota parte della popolazione e ci fa meno paura perché colpisce, in quota parte, solo i soggetti suscettibili. A seconda di come il virus cambia, solo per far riferimento all’Italia parliamo di 4-8 mln persone l’anno. Questa è la differenza di scenario di cui bisogna tener conto.
La diffusione del coronavirus come avviene?
Un nuovo virus che si trasmette attraverso goccioline respiratorie con manifestazioni cliniche in gran parte dei casi non gravi, chiaramente ha una capacità diffusiva enorme. Paradossalmente, per estremizzare, patologie del genere sarebbe meglio che fossero mortali come l’ebola che si trasmette meno perché uccide molto velocemente gran parte dei soggetti colpiti. In questo caso invece, specie all’inizio, i cinesi hanno continuato a vivere normalmente e frequentare luoghi pubblici ad altissima densità di contatto – metro etc – esattamente come facciamo noi nel periodo dell’influenza stagionale. Tutte queste sono informazioni utili per adottare a livello sia nazionale che internazionale le strategie possibili più efficaci, perché si tratta esattamente di ciò che dobbiamo evitare e che potenzialmente può accadere. In sostanza si parte da qui per contenere la diffusione. Del resto, se andiamo a vedere le ultime pandemie (Sars, Mers etc), siamo riusciti a bloccarle perché ci siamo attivati in questo modo.
A che punto siamo con la produzione di un vaccino e nel frattempo come si viene curati?
Le armi a disposizione ad oggi non sono poi così diverse da quelle utilizzate per la peste nel 1377 dalla Repubblica di Venezia che, per l’esigenza di mantenere attivi i rapporti commerciali con il resto del mondo, creò i lazzaretti e mise in quarantena chi arrivava da fuori. Avevano capito che bisognava aspettare 40 giorni per individuare eventuali contagi. Per il coronavirus ne occorrono 14 ma la ratio è la stessa. Rispetto al passato abbiamo però, ovviamente, diagnosi laboratoristiche e di contenimento molto più raffinate. Oggi ci sono mascherine di tutti i tipi, nel passato remoto c’erano i medici che indossavano una maschera con il naso lungo, era quel poco che facevano e non avevano chiare – come invece accade oggi – le idee sulla sepsi, la sterilizzazione e la disinfezione. Posto questo, non abbiamo altro. Vaccini e farmaci sono lontano dall’essere prodotti.
Quanto tempo ci vorrà?
Ne occorre tantissimo. Per i vaccini, almeno un anno o due. Si tenga conto che un vaccino per l’epatite impiega 6-8 anni per arrivare sul mercato. Per i passaggi di sicurezza, validazione etc. In questo caso la burocrazia sarebbe più snella però ci vogliono delle prove su almeno 50-60mila persone. In Cina dicono che stanno facendo test sui topi. Sono preliminari agli studi clinici sull’uomo. Alcuni farmaci antivirali sembra che siano efficaci e diverse strutture che hanno in cura questi casi li stanno provando. Cioè si usa quel che c’è. Si consideri poi che i pazienti sono ancora pochi. Allo Spallanzani, per dire, hanno tre persone. Uno studio clinico ne richiede almeno 20mila per poter avere una valutazione certa dell’efficacia. Quindi al momento (e per fortuna, per certi versi) mancano i presupposti.
A livello di rapidità della diagnosi, le cose come stanno?
Con i tecnici di biologia molecolare abbiamo un meccanismo molto sensibile e rapido nell’individuare i casi positivi. E aver isolato, anche in Italia, il virus vivo in laboratorio ci permette di fare ulteriori prove e individuare test ancora più precisi per stagliare la malattia. Si tratta di elementi che danno un “sostegno” alle misure di quarantena. Ma siamo sempre lì, nel 1377 avevano idee spannometriche, oggi possiamo fare velocemente una selezione di chi è o non è a rischio. Altro non c’è.
Lei è presidente di una delle associazione di volontariato che ha messo a disposizione personale per fare i controlli negli aeroporti. Ci può dare qualche dato?
Da quando abbiamo iniziato i controlli in aeroporto su 510mila persone esaminate otto avevano un po’ di febbre, ma si trattava di semplice influenza.
C’è poca chiarezza sulla possibilità che gli individui asintomatici possano trasmettere la malattia. Lei cosa ne pensa?
I dati ci dicono già che infettano di più quelli sintomatici. Ma questo avviene in tutte le malattie infettive. Gli individui non sintomatici possono avere il virus ma hanno una carica virale più bassa e possibilità minori di infettare. Poi dipende dalla tipologia dei contatti dalla durata. Si è visto che bisogna stare proprio vicino per infettarsi. Il grosso dell’infettività è dato dalle gocce più grandi che ad esempio si emettono starnutendo.
Rispetto alla Sars del 2002-2003 come giudica l’atteggiamento delle autorità cinesi? C’è più trasparenza-collaborazione con il resto del mondo?
Sicuramente come ha detto la stessa Oms i dati che conosciamo sono solo una punta dell’iceberg. Ma questo è “normale” per qualsiasi epidemia. Per quelle di morbillo che ci sono state recentemente in Italia, sappiamo che i numeri sono sottostimati per 10 volte. Pertanto anche per una patologia banale come questa del coronavirus – che soprattutto nelle prime fasi era del tutto sovrapponibile all’influenza – è comprensibile che ci siano imprecisioni. Poi certo bisogna capire quanto dicano o non dicano i cinesi. Si è visto anche con la Sars quanto hanno impiegato a “relazionarsi” con il mondo esterno. Oggi sembra che ci sia più trasparenza ma c’è un interesse politico. Da un lato Pechino vuol far vedere all’interno il livello di capacità di reazione, mostrando i “muscoli” alla popolazione. Dall’altro avendo una così grande rilevanza, rispetto al passato, a livello internazionale, è chiaro che c’è la convenienza ad interagire con l’esterno con trasparenza non dico totale, ma maggiore.
Si è molto parlato dell’ospedale di Wuhan costruito in soli 10 giorni. Si può davvero credere che una megalopoli del genere non abbia una struttura specializzata per accogliere mille persone? Cosa dobbiamo pensare della sanità pubblica cinese?
Anche quello è stato un modo per mostrare i muscoli. Non è che non avessero ospedali in grado di affrontare l’emergenza. Hanno allestito le fever clinic, per dire. Ma è stato solo un esercizio muscolare. Per dare un giudizio sul sistema sanitario pubblico cinese bisognerebbe essere lì. Sicuramente si può dire che se l’epidemia fosse nata qui sarebbe stata più rapida, quanto meno all’inizio, la circolazione delle informazioni.
C’è anche da considerare però un effetto negativo. Perché l’eccesso di informazione, se non è di qualità, può creare panico.
Esatto. Quello che viene detto dall’Oms avviene su scala mondiale ed è utile che l’informazione arrivi anche da noi. Perché lavarsi le mani o al limite indossare le mascherine – anche se non servono per il coronavirus – può servire a ridurre la diffusione dell’influenza e degli altri virus respiratori.
C’è un problema storico e irrisolto che riguarda la promiscuità uomo-animale. Sappiamo che questi virus si trasmettono dall’animale all’uomo in particolari contesti. Non è una questione solo cinese, ovviamente. Pensiamo per es. all’Africa. Ma in un mondo ormai globalizzato ci riguarda tutti e chiama in causa la lotta alla povertà e alle disuguaglianze. Le posso chiedere la sua opinione?
Non è un caso che l’aviaria sia nata in Cina. Ma pensiamo alla spagnola, oggi sappiamo che il virus viene dal sud est asiatico. Incide ovviamente l’abitudine a portare avanti stili di vita a rischio. Non solo negli ambienti rurali o nei mercati di cui tutti abbiamo visto le immagini. Ma questo accadeva anche da noi 150 anni fa. Si tenevano le galline in casa di notte per evitare i furti. In questa situazione si vede come e quanto siano vitali gli aspetti essenziali della qualità della…vita. Mi riferisco alla garanzia di acqua potabile, a una nutrizione regolare e adeguata come alla diffusione e l’accesso alle informazioni. L’ebola si diffonde in alcune zone dell’Africa subsahariana ed è difficile contrastarlo perché dove colpisce lavano i cadaveri. È chiaro che lavare un cadavere con l’ebola significa infettarsi. Quindi l’importanza dell’informazione soprattutto, e poi l’igiene e acqua e cibo in grado di sostenere l’organismo. Queste sono le conquiste del mondo più avanzato che vanno “diffuse” ovunque in maniera virale.
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