Il dilagare del coronavirus, al netto delle implicazioni sanitarie, fa emergere tutta una serie di contraddizioni in seno alla sinistra, in seno al modello della globalizzazione e addirittura in seno al funzionamento della forma di stato democratica. Andiamo con ordine.
La sinistra: la prima contraddizione che emerge, lampante, di fronte alla sinistra, ai suoi partiti, finanche ai suoi sostenitori (non escluso chi scrive) riguarda il funzionamento del sistema sanitario. L’emergenza Covid-19 sta mettendo a dura prova la tenuta del Ssn, che per la prima volta sta rischiando seriamente di non reggere la sfida che gli si pone davanti, e tutti ormai ci rendiamo conto quanto sarebbe stato provvidenziale, oggi, non aver tagliato gli ospedali ieri, non aver limitato le assunzioni di personale medico, non aver riconosciuto stipendi adeguati a chi si occupava della salute pubblica in prima linea. Tutti oggi ci rammarichiamo di non aver investito in ricerca e salute in questi quaranta (QUARANTA!) anni di rincorsa sfrenata al profitto e alla crescita economica. La responsabilità della sinistra sta nell’aver disertato, nel non aver mantenuto una posizione che era chiamata a difendere unguibus et rostro ma dalla quale, invece, ha preferito smarcarsi, in nome delle magnifiche sorti e produttive dell’ultima era del mondo, l’era del trionfo capitalistico sull’orbe terraqueo, che in questi anni realizzava l’utopia reale dell’ecclesia diffusa su tutta la Terra.
La seconda contraddizione che scoppia in mano alla sinistra, in un certo senso collegata alla prima, è relativa all’idea che bastasse garantire i diritti individuali per adempiere al suo compito storico. Libertà di muoversi ovunque, libertà di esprimere ciò che si vuole, libertà di consumare tutto ciò che si può. In una parola, libertà di esprimere se stessi, violando ogni struttura, norma sociale, tradizione o convenzione che possa fungere da limite alla libertà. Ma, esattamente come non può pensarsi il freddo se non si conosce il caldo, la notte senza il giorno, la vita senza la morte e via discorrendo, la libertà non può esprimersi se non all’interno di un recinto limitativo, che (guardacaso) coincide con il vecchio adagio di Martin Luther King (che di certo non era un marxista) secondo il quale “la mia libertà finisce dove inizia la vostra”. La sinistra ha sostenuto per anni l’idea di un’estensione ad libitum della libertà individuale, senza rendersi conto che stava scivolando pericolosamente lungo il greto scosceso dell’edonismo individualista, assurto ormai a religione laica inviolabile, soprattutto per le nuove generazioni.
Dopo quarant’anni di prediche in senso consumist-edonistico, in cui ci si è sentiti liberi semplicemente per il fatto di poter godere della libertà di sorseggiare uno spritz a 10 euro sui Navigli, a piazza Trilussa o ai Murazzi, oggi ci troviamo nell’incapacità di uno Stato di far passare un messaggio di buonsenso e di prudenza, perché quel messaggio cozza con l’esecuzione del rito laico del consumo edonistico. In altre parole, abbiamo cresciuto una generazione (o forse più di una) che si esprime solo consumando, e se non può consumare non riesce ad esprimersi. Il risultato è che la sera del sabato in cui il presidente del Consiglio decreta le zone rosse e fa appello alla massima cautela e collaborazione, orde di giovani si sono recate nelle vie della “movida”, completamente indifferenti alla questione. Non è una questione di informazione, o di ignoranza, come si potrebbe pensare, la questione è ben più profonda, ed è esistenziale. Se viene meno la possibilità di consumo, viene meno lo zeitgeist, lo spirito della storia di una generazione. Individualismo edonistico che fa il paio con l’individualismo egoistico di chi, non appena appresa la notizia della chiusura delle zone rosse, si è precipitato a fare il biglietto del treno per tornare a sud, rischiando di beccarsi il virus in treno, qualora non lo avesse ancora preso, di diffonderlo ai propri cari e, in seguito di diffonderlo anche al sud, dove il sistema sanitario è già sul punto di collassare in condizioni di normalità, figuriamoci nel caso di una diffusione di coronavirus.
La terza importante contraddizione, anch’essa strettamente correlata con le due precedenti, riguarda l’atteggiamento nei confronti della centralità statale da parte della sinistra, ed in particolare dell’autorità dello stato centrale. La sinistra politica, che nasce come forza statalista, a sostegno del pubblico sul privato, dell’intervento pubblico in materia economica, della tassazione progressiva, del welfare e delle garanzie sociali collettive, ha mano a mano spostato il suo modo di agire, cominciando ad individuare nello stato centrale non più lo strumento in grado di garantire, superando le differenze di classe e di ceto, i diritti universali, non più uno strumento di garanzia contro le diseguaglianze, non più il prodotto razionale del patto sociale, bensì un intralcio alla crescita, un freno all’economia, un laccio al collo alle imprese strozzate dal fisco, un impedimento alla legittima espressione della sanità e dell’istruzione privata, un coacervo di sprechi, un gendarme illiberale. Insomma, la sinistra ha contribuito ad allontanare l’autorità dello stato sovrano in nome, ancora una volta, delle libertà individuali di ognuno, esattamente nel solco tracciato dall’aratro della “lady di ferro” che diceva che la società non esiste, esistono gli individui.
Dopo anni di questa lettura è entrata in testa alle masse l’idea che lo Stato non possa arrogarsi il diritto di chiedermi di starmene a casa, e i risultati li vediamo oggi, in emergenza, nell’immensa difficoltà che incontriamo nel far rispettare le regole.
Il mondo globale: eravamo all’inizio degli anni 2000 quando l’idea che un altro mondo fosse possibile morì, a Genova, in piazza Alimonda, alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto. Allora uno degli slogan era “voi G8, noi 6.000.000.000”. Venti anni dopo, nel mondo si è aggiunto un altro miliardo di persone a quei sei di allora, ma invece di rinforzarsi, quel movimento e quell’alternativa si sono disperse. L’occidentalizzazione del mondo, che ha invaso anche realtà con sistemi di vita totalmente diversi dai nostri (la Cina, il Sud America, il mondo arabo, perfino i monaci del Monte Athos qualche anno fa hanno attivato un accesso ad internet), è ormai imperante in tutto il mondo, e porta con sé il suo bagaglio valoriale. Laddove le civiltà si identificavano nella sacralità, nel rito, nella convivialità, nella frugalità, in un comunitarismo in cui era possibile individuare la propria appartenenza, l’occidentalizzazione ha portato un nuovo sistema di principi: velocità, produttività, efficienza, superamento di ogni limite o barriera che la natura possa metterci di fronte.
Se il sistema valoriale è questo, non esiste specie in via d’estinzione in Amazzonia che possa impedirci di disboscare, non esiste fiume che non si possa drenare, non esiste lago che non si possa adibire ad allevamento ittico, non esiste confine di stato o dogana che possa impedirci di ordinare on line, non esiste barriera che possa impedirci di continuare quella forsennata corsa al consumo illimitato in un sistema limitato. E però questo pone un piccolo inconveniente: se non ci fermiamo noi, non si fermano nemmeno le conseguenze di ciò che noi facciamo. E allora basta il battito d’ali di un virus a Wuhan per scatenare un uragano in tutta l’Europa e, di conseguenza, in tutto il mondo. L’avvento violento del Covid-19 ha fatto crollare in un attimo l’illusione mondialista che i confini, gli stati, le differenze fossero solo i lacci e lacciuoli al collo della tigre consumista, che forte del vento del futuro che soffia alle sue spalle, deve avere il diritto (e se non le viene concesso se lo prende da sola) di divorare tutto ciò che trova. Il mercato globale, oltre ad aver prodotto ricchezze smodate per le multinazionali e diseguaglianze profonde tra gli stati e negli stati, è anche il principale vettore incontrastato di ogni disastro in tutto il mondo. Un altro mondo era possibile allora, oggi diventa più che mai necessario.
La democrazia classica: la contraddizione più inquietante, però, è quella che sta emergendo prepotente in seno alla nostra forma di stato. Di fronte all’emergenza dilagante nella provincia di Hubei (60 milioni di abitanti) la Cina, che non vanta certamente una forma di governo sul modello della democrazia rappresentativa, è stata in grado di arginare e confinare l’epidemia quasi esclusivamente a quell’area, mettendo in atto una politica di domiciliazione coatta dei cittadini residenti in quell’area, che sta dando i suoi frutti e sembra funzionare. L’Italia e le nazioni occidentali, per ovvie ragioni, non hanno l’autorità politica per rinchiudere in casa milioni di cittadini, ma la conseguenza è che quella che, generalizzando non poco, viene definita una dittatura, è in grado di garantire la sicurezza dei propri cittadini, la democrazia occidentale, potrebbe non essere in grado di farlo. Con questo non sto certo dicendo che dobbiamo buttare a mare la nostra democrazia per abbracciare sistemi autoritari a partito unico, ma è evidente che la concorrenza di un sistema statale alternativo al nostro potrebbe far crescere l’idea, in occidente, che forse un po’ di dittatura non sarebbe così male. E ci vuole davvero un attimo perché un Junio Valerio Borghese qualunque si alzi una mattina e dica “datemi i pieni poteri, ci penso io a gestire la questione”.
La Cina, che è in grado di gestire la questione in maniera pianificata, pone una sfida enorme al modello occidentale il quale, se non vuole soccombere, deve trovare il bandolo della matassa per salvare la capra della democrazia evitando, però, che si mangi i cavoli della sicurezza collettiva. Come fare? La prima cosa che mi viene in mente di fare è quella di sottrarmi alla questione e analizzare meglio. In effetti, è vero che la Cina ha messo in atto una domiciliazione forzata, ma è pur vero che i cittadini cinesi non hanno protestato troppo, hanno accettato di buon grado, hanno compreso che il sacrificio che il governo stava chiedendo loro era necessario per la sicurezza di tutti, per i loro concittadini, per il mondo intero. Allora il dubbio che mi viene in mente è il seguente: ammesso che il sistema cinese possa avere una maggiore libertà coercitiva rispetto a quello occidentale, ma è possibile che abbia giocato un ruolo rilevante anche il sentimento di fiducia che il popolo cinese nutre nei confronti della propria classe dirigente?
Sì, perché la Cina sarà anche una dittatura, ma i dirigenti del Partito comunista cinese sono molto attenti a tenere alto il consenso della popolazione nei confronti del potere centrale, attraverso una macchina propagandistica imponente, attraverso l’inclusione di fasce sociali, attraverso la realizzazione di infrastrutture in grado di ridurre la povertà e le diseguaglianze, insomma, benché illiberale, la classe dirigente cinese gode di una fiducia sicuramente maggiore di quella che i cittadini italiani rivolgono alla propria classe politica. E se fosse questa la chiave di lettura giusta? Non ne ho la certezza, ma credo che prima di correre il rischio di rinunciare alle nostre strutture democratiche, varrebbe la pena tentare di difenderle.
E la strada non può che essere quella del rinforzamento del sistema politico. Una riforma dei partiti si rende necessaria, è necessario che tutti i partiti si dotino di uno statuto, che la si smetta con le forme liquide e si ritorni a partiti piramidali, organizzati, formati da tesserati, che si torni al finanziamento pubblico dei partiti, che la si smetta di pensare alla politica come un costo, che ogni partito si doti di organi di formazione delle nuove classi dirigenti. Una società forte, è una società che ha forti le sue strutture, e non esiste regime autoritario al mondo che possa reggere al lungo senza un consenso nella popolazione. Certo, rimarrebbe tutto in piedi il problema che i partiti sono fatti da uomini, e di certo non esiste legge che possa costringere chi detiene il potere ad esercitarlo in maniera illuminata. Ma in questo sta proprio il succo della grande sfida che ci aspetta: o saremo in grado di cambiare noi stessi e rinforzare il nostro senso di comunità, oppure qualcun altro lo farà per noi.
Laureato in Relazioni Internazionali, Simone Ceccarelli fa parte della segreteria romana di Articolo Uno