L’angoscia, la speranza e la fatica di medici ed infermieri degli ospedali in prima linea. Dai reparti di Bergamo, dove i pazienti «continuano ad arrivare a un ritmo impressionante» a Napoli, dove - dicono - «se l’epidemia dilagasse non reggeremmo»

Un piccolo vassoio con una decina di dolcetti che la barista della pasticceria al 42 porge con un sorriso alle due infermiere che hanno appena finito il turno e si concedono un caffè di fronte all’ospedale di Cremona: «Per voi».
In quelle due parole c’è tutta la gratitudine di una delle realtà più colpite dal Covid-19.
Comincia da qui, dalla cittadina situata nel cuore della Pianura padana, il racconto di un impegno che da settimane, nelle corsie degli ospedali, è molto più che “semplice lavoro” per gran parte dei camici bianchi e blu italiani.

«Qui è davvero un incubo… una vera e propria guerra. Facciamo ormai turni di 12 ore consecutive e abbiamo quasi raddoppiato i posti letto nel mio reparto. C’è paura perché ogni giorno la situazione si aggrava. Ogni giorno spero che qualcosa migliori ma fino ad ora il ciclone va avanti sempre più violento. Ma noi non ci lasciamo travolgere. Teniamo duro» racconta Monica Mariotti, una delle destinatarie del gesto di riconoscenza del proprietario del bar poco distante dalla struttura dove dall’inizio dell’emergenza lavora in prima linea per assistere i pazienti che hanno contratto il coronavirus.

Nonostante l’angoscia delle sue parole, è percepibile la risolutezza nell’aggrapparsi alla speranza.
Sono persone come Monica, come i tanti medici e operatori sanitari che continuano a impegnarsi oltre le loro forze, rischiando ogni giorno sulla propria pelle, a rappresentare il meglio del nostro Paese in un momento difficile, che spezza il fiato, spegne la serenità e ha già cambiato la nostra vita.
«Le terapie farmacologiche per questo virus sono poche. Il decorso dipende prevalentemente dall’organismo dei pazienti. L’intervento sanitario può solo supportarlo quando non ce la fa più. E per farlo servono strumenti per la respirazione che non sono mai sufficienti per tutti. Ormai è come essere in guerra», è lo sfogo di Daniele Macchini, medico internista all’ospedale di Bergamo che nella sua testimonianza ripropone quel termine che fa paura, “guerra”, e lancia un appello: «Ognuno deve fare la propria parte per aiutare i medici a salvare più vite possibili»…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 20 marzo 

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