Mentre gli operatori sanitari cercano di arginare la piena dell’epidemia da Covid-19 il dibattito pubblico si sta occupando di questioni più o meno chiave per il futuro del nostro Paese. La discussione attorno alla tenuta dei conti pubblici è, però, quasi assente. Questa calma apparente è sorprendente. Certo, le cadute a ripetizione dei valori della borsa, e in particolare l’andamento dello spread, sono degli scricchiolii preoccupanti per chi osservi le dinamiche del mercato, ma il nostro sistema economico è molto più in bilico di quanto non appaia oggi sui giornali e in tv.
Cosa succederà? Non è possibile prevederlo esattamente. Sicuramente, come dicono molti, il mondo economico, come lo conoscevamo prima di questo febbraio, non sarà lo stesso quando finalmente usciremo da questa tragedia sanitaria e umana. La pandemia Covid-19 è la discontinuità che segna un passaggio di epoca e, se i numeri che ci arrivano dall’Asia sono veritieri, è chiaro che nella nuova fase le potenze economiche dominanti non saranno quelle occidentali.
Ma quello che dovrebbe interessarci di più nel breve periodo è come sia possibile tenere insieme una protezione sociale per tutti e la tenuta dei conti dello Stato. Ovviamente i vincoli di bilancio dei trattati europei, che per anni ci hanno condizionato, sono completamente da ignorare in questa fase. Ma il problema non eludibile è come sia possibile reperire il denaro necessario a dare protezione a tutti almeno per i mesi in cui saranno ancora necessarie forti restrizioni alle nostre normali attività.
È giusto appellarsi alle istituzioni europee, che dopo il clamoroso passo falso di Christine Lagarde, sembrano aver intenzione di giocare un qualche ruolo nell’arginare gli effetti economici distruttivi della pandemia. Alcuni economisti hanno suggerito un potenziamento dell’attività, già in corso, della Banca centrale europea, di acquisto di titoli di Stato. Attraverso la “monetizzazione del debito” gli Stati potranno spendere molto più delle loro entrate senza che il tasso di interesse sul debito pubblico diventi così alto da portarli al fallimento. Si tratta di una soluzione percorribile, con tempi incerti e solo se tutti gli Stati, anche quelli poco indebitati e per ora marginalmente colpiti dall’epidemia, accettano di dare questo mandato alla Banca centrale europea.
Mentre si attende di capire quali mosse metteranno in campo le istituzioni europee, non è possibile immaginare che l’Italia, ad oggi la più colpita dallo shock sanitario e gravata da uno dei debiti più insostenibili dell’eurozona, non predisponga strategie di risposta autonome.
Due approcci possibili ci spingono in direzioni diverse. Una strategia consiste nello scommettere sul fatto che sia immaginabile riavvolgere il nastro. Ripartire da dove ci siamo fermati. E poi nel lungo periodo fare tesoro degli errori fatti e aggiustare il tiro. La seconda strategia consiste invece nell’accettare una buona parte degli effetti della crisi in arrivo e provare a governarne soltanto alcuni aspetti.
Nel primo caso occorre che il più possibile gli attori del nostro sistema socioeconomico continuino a fare esattamente quello che facevano fino a ieri. Paghino l’affitto, le rette di asili che i loro figli non frequentano, non sospendano gli abbonamenti a palestre chiuse, saldino le fatture che gli sono state recapitate. Ottenere questo è molto difficile perché ci sono milioni di lavoratori autonomi e imprenditori che non hanno disponibilità di denaro sufficiente.
Un modo per facilitare un ritorno il più possibile indolore alla normalità è mettere in campo un reddito di base universale temporaneo. Una misura evocata anche da alcuni deputati nel Parlamento statunitense in questi giorni. Si tratta di un versamento mensile, uguale per tutti, che non dipende da nessuna condizione o caratteristica dell’individuo o della sua famiglia. Lo ricevono i ricchi come i poveri, i portatori di handicap e i giovani in salute. Per questo motivo il reddito di base universale è stato spesso criticato sotto l’aspetto dell’equità: non terrebbe conto delle differenze nei bisogni delle diverse persone.
Allo stesso tempo il fatto che sia versato a tutti senza bisogno di dimostrare alcuna condizione lo rende estremamente facile da mettere in funzione in una situazione di grave crisi. Occorre infatti tener conto del fatto che i tentativi di introdurre strumenti di protezione sociale basati su criteri di erogazione complessi si sono dimostrati molto difficili da realizzare in pratica nel nostro Paese (si pensi al reddito di cittadinanza ma si può andare in dietro fino al reddito minimo di inserimento sperimentato alla fine degli anni 90). Per questo motivo predisporre un reddito universale di base per i prossimi tre mesi, scommettendo sul fatto che questo sia un tempo sufficiente per tornare alla normalità, sembrerebbe una soluzione interessante.
La strategia alternativa consiste nell’accettare che questa crisi segna una discontinuità epocale nella struttura sociale ed economia del nostro Paese e provare a governarne soltanto alcuni aspetti. In questo caso si individuano i settori strategici che devono essere protetti, quelle imprese che hanno prospettiva di creare lavoro e ricchezza nel futuro, si interviene massicciamente per metterli al riparo dagli effetti del blocco della produzione e dalla riduzione della domanda. Le imprese, i lavoratori autonomi che operano in altri settori si lasciano andare incontro al loro destino, immaginando che chi è in grado di sopravvivere sia chi ha maggiori chance di giocare un ruolo positivo per il futuro del Paese. Ovviamente anche in questo caso ci sarà bisogno di allargare la platea di chi riceve protezione sociale, ma lo si fa con strumenti ordinari come il reddito di cittadinanza che, finalmente almeno in questa fase, dovrebbe avere il ruolo di strumento di protezione dalla povertà e non di sussidio di disoccupazione potenziato.
Quale delle strategie si scelga di perseguire è necessario reperire immediatamente risorse sufficienti a renderle sostenibili. Nel caso del reddito di base universale, ad esempio, ipotizzando di trasferire 600 euro al mese per ogni residente, valore simile alla nostra soglia di povertà, la copertura finanziaria necessaria per tre mesi è pari a circa 110 miliardi. Una cifra enorme rispetto a quanto stanziato ad oggi dal parlamento. Ma non una cifra irreperibile.
Ci sono alcuni strumenti che possono essere usati in casi straordinari come questo. L’introduzione di un’imposta patrimoniale una tantum pari all’1,2% del patrimonio netto delle famiglie italiane ad esempio darebbe un gettito sufficiente.
Anche in questo caso si tratterebbe di uno strumento con delle criticità sul lato dell’equità, una patrimoniale con un’aliquota fissa, uguale per tutti, potrebbe essere considerata iniqua. Chi ha 100 euro in banca subirà un prelievo di 1,2 euro, la stessa percentuale versata da un milionario. D’altra parte è importante sottolineare che, essendo incondizionato, il reddito universale di base corrisponderebbe ad ogni residente 1.800 euro in tre mesi. Soltanto le famiglie con un patrimonio netto superiore ai 150mila euro pro capite si troverebbero a versare più di quanto ricevuto in termini di reddito universale base. L’imposta, visto che si tratta di un intervento una tantum, che non sarà ripetuto in futuro, potrebbe essere rateizzabile rendendolo sostenibile per ogni famiglia, anche in condizioni particolari (il caso tipico è un basso reddito ma elevato patrimonio immobiliare).
Si tratta di una proposta insoddisfacente? La risposta dipende fondamentalmente dalle alternative. Esistono alternative credibili che non prevedano una rinegoziazione del debito italiano come avvenuto in Grecia? La monetizzazione del debito, invocata da molti economisti, da parte della Banca centrale europea è veramente una strada percorribile? Un aumento dell’Iva è un’alternativa preferibile?
Sicuramente occorre esplorare le strategie che possono essere predisposte e farlo ora. Attendere che si vedano gli effetti sull’economia reale è un atteggiamento suicida perché non esiste incertezza riguardo al fatto che gli effetti negativi a breve ci saranno.
* Paolo Brunori insegna Economia politica all’Università degli studi di Firenze