Una vera e propria bomba sociale rischia di esplodere negli otto centri di permanenza per il rimpatrio che rimangono aperti nonostante le richieste di chiusura della Commissaria per i diritti umani del Consiglio d'Europa Duna Mijatović e di sindaci come quello di Gradisca d'Isonzo

Circa 450 persone in Italia, alcune migliaia in Europa. Cosa conta la loro vita in tempi di Covid-19, quando, se parliamo in termini numerici, si fronteggia una delle peggiori catastrofi del secolo? Si tratta dei rinchiusi, pardon degli “ospiti” nei Cpr o degli altri acronimi con cui vengono indicati i centri di detenzione per migranti destinati al rimpatrio in Unione europea, quelli e quelle per cui non si prospetta altro futuro che il rimpatrio o l’eterna condizione di irregolarità, una condizione di limbo giuridico poco contemplata dal diritto. Raccontare di una punta di iceberg può essere utile, quando tutto questo sarà passato, per imparare a non dimenticare nessuno, a non dividere più il mondo fra persone da salvare e altri da lasciare andare.

Alle prefetture competenti degli 8 Centri permanenti per il rimpatrio è giunta con data 26 marzo una circolare del ministero dell’Interno, recante come oggetto “Interventi di prevenzione della diffusione del virus Covid-19 nell’ambito dei centri di permanenza per il rimpatrio”. Questo in sintesi il testo: «Al riguardo, nel richiamare le linee d’intervento già indicate nelle precedenti circolari, anche riferite ai centri di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, si sottolinea il particolare rilievo delle seguenti misure. Innanzitutto, si evidenzia l’importanza di effettuare nei confronti delle persone trattenute un costante monitoraggio delle condizioni di salute di ciascuno, al fine di individuare tempestivamente eventuali sintomatologie da Covid-19 e, nei casi sospetti, interessare le competenti autorità sanitarie per gli accertamenti del caso. È altresì necessario assicurare ai trattenuti una idonea dotazione di materiale per la cura dell’igiene ed impartita un’attenta informazione sugli accorgimenti da adottare per prevenire il contagio del virus, garantendo la massima cura dei servizi di pulizia di tutti gli ambienti, sia di alloggio che di servizio. Nell’eventualità di nuovi ingressi, si rileva l’importanza di verificare se, come previsto dal vigente regolamento unico recante criteri per l’organizzazione dei Cpr, è stata effettuata la visita medica preliminare e se è stata esclusa la sussistenza di sintomatologie da Covid-19. In ogni caso, compatibilmente con le attuali disponibilità di posti, è opportuno collocare i soggetti in alloggi separati per un periodo di almeno 14 giorni; Come già segnalato alle SS. LL. con nota del 10 marzo u.s. n. 5897, tutti i colloqui con soggetti esterni dovranno avvenire mantenendo una distanza di almeno 2 metri e, ove possibile, prima dell’ingresso i visitatori dovranno essere sottoposti al rilevamento della temperatura corporea. […] affinché, fermo restando il divieto di detenere negli alloggi i telefoni cellulari, le persone trattenute possano mantenere contatti telefonici con i congiunti che, in relazione ai vigenti divieti di circolazione, non possono raggiungere la struttura di trattenimento. Si rammenta altresì, come già evidenziato con la circolare del 18 marzo u.s., che ai maggiori oneri dovuti all’incremento dell’erogazione dei servizi di accoglienza si potrà provvedere con la stipula di appositi atti aggiuntivi alle convenzioni attualmente in corso».

In sintesi tutto continua e per molto tempo sarà anche impossibile effettuare rimpatri. Si fermano persone in strada e li si porta nei centri, incrementando il rischio di contagio e si risponde o con misure di isolamento dei “nuovi arrivati” o con la garanzia di migliori controlli sanitari che di fatto nei centri (di accoglienza o per i rimpatri) non sono mai avvenuti. Si consente il contatto con esterni – e questo evita certamente l’aumento delle tensioni – ma si conferma il divieto di utilizzare telefoni cellulari verso persone considerate “ospiti”. La sindaca di Gradisca D’Isonzo, in provincia di Gorizia dove a dicembre ha riaperto un Cpr con accanto un Cara (Centro accoglienza richiedenti asilo)  il 29 marzo ha denunciato il fatto che nelle due strutture ci siano attualmente 180 persone, molte giunte in questi giorni, e dove è materialmente impossibile adottare le misure richieste dal Viminale. La sindaca, Linda Tomasinsig, da tempo ha chiesto la chiusura del Cpr. E non si tratta di una posizione ideologica. Da Bruxelles, la Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa Dunja Mijatović, con una raccomandazione ha chiesto espressamente ai governi europei di svuotare i centri di detenzione e di predisporre soluzioni alloggiative alternative, per rispettare la dignità e la sicurezza sanitaria degli stranieri coinvolti.

«Liberate i migranti dai Centri di detenzione o il Covid si diffonderà come un incendio», ha detto John Sandweg, ex direttore di un Centro statunitense di detenzione amministrativa per migranti, come ha ricordato Mauro Palma, Garante nazionale per i diritti delle persone detenute, intervenendo sullo stesso argomento per sollecitare l’Italia a seguire l’esempio di altri Paesi dell’Ue che stanno già procedendo in questa direzione. «Di fronte alla pandemia globale di Covid-19, molti Stati membri hanno dovuto sospendere i rimpatri forzati di persone non più autorizzate a rimanere nei loro territori, compresi i cosiddetti ritorni di Dublino, e non è chiaro quando questi possano essere ripresi. – recita la raccomandazione – In base alla legge sui diritti umani, la detenzione per immigrazione ai fini di tali rimpatri può essere lecita solo se è fattibile che il rimpatrio possa effettivamente aver luogo. Questa prospettiva non è chiaramente in vista in molti casi al momento. Inoltre, le strutture di detenzione per immigrati offrono generalmente scarse opportunità di allontanamento sociale e altre misure di protezione contro l’infezione da Covid-19 per i migranti e il personale. Sono stati segnalati rilasci in diversi Stati membri, tra cui Belgio, Spagna, Paesi Bassi e Regno Unito, con quest’ultimo che ha appena annunciato un riesame della situazione di tutti coloro che si trovano in detenzione per immigrazione. È ora importante che questo processo continui e che altri Stati membri seguano l’esempio. Il rilascio dei più vulnerabili dovrebbe essere prioritario. Dal momento che la detenzione per immigrazione di minori, non accompagnati o con le loro famiglie, non è mai nel loro interesse, dovrebbero essere rilasciati immediatamente. Le autorità degli Stati membri dovrebbero inoltre astenersi dal dare nuovi ordini di trattenimento a persone che è improbabile che vengano rimosse nel prossimo futuro».

E se a Barcellona si decide immediatamente di chiudere i centri di detenzione, l’Italia sembra ignorare questa raccomandazione. Primi contagi si sono registrati a Gradisca d’Isonzo, testimonianze molto dure sono giunte attraverso i contatti della “Rete No CPR, No Frontiere FVG” che stanno seguendo le forme di protesta in atto nel centro, dove in molti hanno praticato lo sciopero della fame. In contemporanea si è smesso di accettare il cibo nel Cpr di Palazzo San Gervasio in provincia di Potenza. I detenuti hanno mantenuto il contatto con gli attivisti della Campagna LasciateCIEntrare. Il 23 marzo i 40 trattenuti comunicavano di essere entrati in sciopero della fame dicendo di essere in ansia per la propria salute e timorosi di contrarre il virus e di non riuscire a contattare le famiglie.  «Non ci sono assistenti sociali. Non sappiamo quanto tempo resteremo e cosa ci succederà. Loro, staff e polizia, entrano tre, quattro volte al giorno nelle nostre aree. E se ci portano dentro il virus?», chiedono le persone che denunciano come sia assente qualsiasi dispositivo di garanzia. «Non ci sono precauzioni per noi. Stiamo qui. Alcuni anche da più di sei mesi». E dichiarano che alcuni non dovrebbero poter essere reclusi, perché malati anche con problemi psichiatrici. Nessuno dei dispositivi annunciati dal Viminale sembra neanche essere stato attuato per evitare contagi.

Notizie simili giungono da Ponte Galeria a Roma: «Sono chiusi in stanze da otto persone. A nessuno di loro è stata data una mascherina o i guanti protettivi. Impossibile anche solo pensare di mantenere la distanza di sicurezza negli spazi comuni o nella mensa. E gli operatori sociali e le forze dell’ordine attorno a loro sono nelle stesse identiche condizioni”. Così si sfoga Carla Livia Trifan, 22 anni, romana, operatrice sociosanitaria in attesa di occupazione, che ha contattato LasciateCIEntrare in seguito all’appello per una sanatoria dei migranti irregolari di cui abbiamo già scritto. «Tenerli in queste condizioni non ha nessun senso e rischia solo di far espandere ancora di più il contagio. O li liberano tutti o li sistemano in un posto sicuro». Carla racconta che a Ponte Galeria ci sono attualmente 40 donne e 75 uomini, compreso il suo fidanzato. «Lo hanno fermato il 3 marzo – racconta -. Appena l’ho saputo ho chiamato la polizia per chiedere spiegazioni. Lui è nato in Tunisia ma vive in Italia sin da quanto aveva 14 anni. Ora ne ha 26 ma non è ancora riuscito ad ottenere la cittadinanza italiana. La polizia mi ha detto di stare tranquilla, che era solo un controllo, ma intanto lo avevano già portato al centro». Ma per queste 450 persone complessivamente trattenute negli 8 Cpr in funzione, la frase “ce lo chiede l’Europa” non vale?