La necessità di dare una risposta immediata ai ragazzi, l’uso delle piattaforme online e i mille modi di inventarsi le lezioni. Ecco il racconto sulla didattica a distanza di una insegnante, consapevole che in questo momento storico occorra una grande visione per la scuola

«All’improvviso tutto è cambiato». Così inizia il racconto di Tommaso, un bambino di dodici anni che insieme alla sua classe, dalla prima settimana di chiusura delle scuole ogni giorno scrive una storia per la costruzione di una sorta di nuovo Decameron datato 2020.
Ed è davvero l’incipit perfetto per raccontare quello che è accaduto in queste ultime quattro settimane (a cui si aggiungono i quindici giorni precedenti delle scuole del Nord).
È successo tutto all’improvviso ed è davvero cambiato tutto o almeno moltissimo. La chiusura delle scuole, che si sta prolungando senza che nessuno abbia ben chiara la reale durata, ha portato nella vita quotidiana di più della metà della popolazione un cambiamento inedito e senza precedenti a memoria personale.

Un’emergenza non prevista che non ha concesso alcun tempo di programmazione. La prima cosa da registrare è che questa emergenza ha rivelato molto di ciò che nemmeno i docenti sapevano di se stessi: una risposta così immediata da essere quasi inaspettata. Prima delle indicazioni ministeriali, che sono arrivate solo il 17 marzo e che sono state piuttosto generiche, la maggior parte degli insegnanti si è posta il problema di come agire e come raggiungere i propri studenti. Ci sono le eccezioni, naturalmente, ma la maggior parte dei docenti dei diversi gradi di istruzione, ha cercato una strategia per poter proseguire quello che avveniva a scuola, ognuno con il proprio metro costruito negli anni di esperienza e di vissuto scolastico.
Ogni canale è stato utilizzato: le mail, i messaggi whatsapp, le telefonate, le piattaforme didattiche e quelle per videoconferenze online.
Molti docenti per più giorni hanno fatto le ore piccole per capire il funzionamento dei marchingegni digitali o delle piattaforme web che fino quel momento erano rimaste, a torto o a ragione, fuori dalla loro quotidianità didattica.

Il primo pensiero di molti di noi è stato: battiamo un colpo, facciamoci sentire dai ragazzi e dalle ragazze, dai bambini e dalle bambine per dire: ci siamo, ci siete anche…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 10 aprile 

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