Per ricostruire una sanità che sia davvero capace di prendersi cura delle persone è necessario recuperare alcuni ingredienti che sono andati persi nel tempo

Una bella ricetta, per realizzarsi in un buon piatto, ha bisogno di buoni ingredienti, di sapori della terra, di mani sapienti, di attenzione, di storia, di conoscenza, di tradizioni, di amore per ciò che si fa. A chi non piace sedersi a tavola dinnanzi a un buon piatto sapendo che le mani eleganti, che lo hanno preparato, hanno lavorato nella speranza di accontentare chi è seduto al desco. Esiste poi il piacere delle buone maniere, del tempo per il sorriso e la gentilezza. Armonia, ecco il termine giusto per raccontare un buon piatto. Armonia.

E dove la si va a cercare? Trattandosi di un buon pranzo o una buona cena, io direi in una piccola trattoria dal tavolo di legno e la tovaglia a quadri rossi, dove ci garba il sorriso composto e amico dell’oste e l’evidente amore per la sua professione. Ecco, immaginiamo il nostro piacere nell’assaporare un buon piatto e proviamo a compararlo con il nostro bisogno di salute. Accostamento ardito? Probabilmente no.

Esistevano, ormai tanti anni or sono, i piccoli ospedali. Le periferie delle nostre città ne contavano, orgogliosamente uno per ogni quartiere o delegazione. Chi aveva l’onore di lavorarci avvertiva un forte senso di appartenenza, condizione medesima provata dalle persone/pazienti che usufruivano dei servizi erogati. La popolazione ne conosceva molto bene i limiti, comunque molto elevati, strutturali e quelli delle competenze espresse.

Ci si rivolgeva a queste strutture per la cura di patologie a bassa e media complessità, o per la diagnostica. Ma la persona sapeva che lì, in quel piccolo ospedale avrebbe trovato la realizzazione del concetto di cura. Esistevano sapienti mani e cervelli fini in grado di sconfiggere o gestire patologie note e ben radicate nel territorio. Ma esistevano pure garbati e gentili modi. Dato il non sempre scontato esito delle vicende umane, legate alla nostra salute, sapere noi, o i nostri cari, in mani dedite al buon lavorare e alla cortesia pareva un buon viatico comunque. Il tempo per la gentilezza, ecco un concetto che si è andato perdendo negli affanni delle cure. Il tempo per la gentilezza.

Ma proprio quando tutto pareva prendere la giusta strada e la riforma sanitaria espressa nel 1978 (che ha istituito il Servizio sanitario nazionale, ndr) aver trovato la propria quadra, qualcuno ha deciso che il curare gente malata non poteva più risultare solo una spesa. Nasce così l’aziendalizzazione degli ospedali e delle strutture sanitarie in genere. E allora venne il tempo del ridimensionamento e della chiusura dei piccoli ospedali di periferia. Da quel momento in poi, tutto viene accentrato nei grandi ospedali, che fino a poco tempo prima avevano l’onore e la responsabilità di dedicare le proprie competenze umane e professionali, alle grandi patologie, o a quelle meno frequenti. Queste importanti e grandi strutture ospedaliere che necessitavano di organizzazione e competenze di livello elevato come le Terapie intensive, la ricerca, i centri trapianti e le grandi competenze avanzate, altro non erano che l’espressione chiara e lampante della necessità di luoghi di Cura dedicati.

La misura delle necessità dell’uomo, ecco un’altra cosa che è andata perduta nel nostro tempo. Sostituito il concetto di cura della persona con quello parcellare di diagnosi e cura della malattia. Ma questa immagine proveremo a esplicarla più avanti.

Nasce così la massificazione della salute pubblica. Se poi a questa triste condizione si lega la supposta, ma mai soddisfatta, necessità economica dello Stato prima e delle Regioni poi, altrimenti detta voragine, si ha il ritratto compiuto di una tempesta che una volta iniziata pare non potersi più fermare. Come in un quadro di Turner, dove il veliero ondeggia fino a sbattere sugli scogli.

La concentrazione delle poche risorse economiche, sin d’allora elemento precipuo, ha trovato impieghi poco accorti e altrettanto poco congrui alle esigenze legate al concetto di salute. Si rifletta, per esempio, sul fatto dei Drg, diagnosis-related group, acronimo a matrice statunitense. Ennesima condizione, questa, che ha contribuito a occultare il senso di cura personalizzata. Ma cosa sono e a cosa servono questi fantomatici Drg? Sono un sistema che permette di classificare tutti i pazienti dimessi, escluse tutte le prestazioni a carattere ambulatoriale, in gruppi omogenei per quantità di risorse economiche erogate e diagnosi di patologia riscontrata e/o curata. In nuce servono a dare un “prezzo” al ricovero. Quindi, in teoria, un congruo rapporto tra la durata del ricovero e l’efficacia del risultato ottenuto, rappresenta l’optimum in campo ospedaliero.

Ma non si tiene molto conto delle variabili che possono venire espresse anche in caso di ricoveri a bassa complessità. Ciò sta a significare che l’approccio al sistema salute è voluto a matrice cartesiana vedi effetto-causa, come se il tutto fosse esplicabile con un semplice algoritmo, dimenticando che il mondo della sanità è un sistema complesso dove il tutto è più della somma delle sue parti.

Le variabili che intervengono nel determinare la durata di un ricovero non risiedono solamente nelle abilità e competenze espresse dalle equipe sanitarie, ma stanno pure nelle specifiche condizioni psichiche, culturali, sociali, economiche e altro ancora di ogni singolo paziente. Sostanzialmente non dobbiamo dimenticare che ogni paziente ha un proprio vissuto che rappresenta il proprio unicum, condizione questa a cui l’aziendalizzazione della sanità pubblica ha ormai, da tempo, disatteso. Ogni singolo soggetto risponde agli stimoli nocicettivi, il dolore, a modo proprio. Le condizioni culturali spesso sono in grado di fare la differenza. Si ripropone, quindi, l’esigenza della personalizzazione in ambito di cura.

Non dobbiamo poi sottovalutare la questione legata al tempo dedicato alla persona/paziente. Le ristrettezze economiche hanno condotto a una estrema razionalizzazione del numero di professionisti della salute. Vale il principio che meno infermieri presenti nei reparti di assistenza e maggiore risulta l’incidenza della mortalità. Probabilmente non tutti sanno che in Italia ci sono 5,6 infermieri ogni mille abitanti, contro i 10,5 della Francia e i 12,2 della Germania.

Tutte le mancanze descritte, per altro in maniera assolutamente sintetica, e non le uniche purtroppo, del nostro Servizio sanitario hanno creato la tendenza alla dimissione precoce. Condizione che si pone senza una valutazione delle condizioni anagrafiche e socio economiche del paziente e dei suoi famigliari. Si scarica, in questo modo, tutto l’onore assistenziale sulle spalle delle famiglie, pur sapendo che i servizi assistenziali sul territorio, salvo poche Regioni del nord Italia, sono assolutamente inesistenti.

In ultimo, riprendiamo il filo del discorso all’argomento parcellizzazione delle cure. Altro non vuol dire che stiamo vivendo un periodo di grande frammentazione delle competenze, nel nostro caso, mediche. Ormai non esiste più l’ortopedico, ma esiste l’ortopedico della spalla, quello delle mani, quello dei piedi, quello che si occupa solamente di artroscopie, quello che fa solo protesi al ginocchio e quello che, invece, le fa solo all’anca. Concetto questo valido per tutto l’ambito medico. Il risultato prodotto da questa frammentazione del sapere è la considerazione parcellare e non olistica del paziente. Quindi curiamo il piede e solo quello, senza curarci di altro. E come dice Edgar Morin, il più grande conoscitore della filosofia del Pensiero sistemico la «frammentazione del sapere depaupera la conoscenza».

Ecco dunque alcuni temi critici del nostro Servizio sanitario, ben altri ne avremmo potuto prendere in considerazione, la privatizzazione della sanità, i robot in ambito chirurgico, ecc. ben oltre avremmo potuto spingerci nella ricerca di plausibili tesi circa la necessità di ripensare il concetto di salute e di cura. Ma ci fermiamo qui. Anzi no, torniamo alla nostra ricetta.

In sanità abbiamo ottimi ingredienti, mani sapienti e delicate per amalgamare, abbiamo buone competenze. Insomma avremmo quasi tutto, ci mancano “solo” due piccole grandi cose, luoghi di cura più piccoli e quindi maggiormente personalizzabili e l’armonia. Armonia intesa come sapiente e dolce amalgama nel tentativo di non curarsi solo dei bilanci dell’ospedale ma di prendersi cura delle persone.