Cercatori d’oro, trivellatori, coloni e predatori di ogni tipo hanno diffuso l’infezione da Covid-19 tra le popolazioni indigene isolate nella foresta amazzonica. Qui scarseggiano le strutture sanitarie ed è quasi impossibile organizzare forme di prevenzione

«Se il nuovo coronavirus disturba il sonno dell’uomo bianco, immaginatevi il nostro». A dirlo è Mario Nicacio, dirigente della Coordenação das Organizações Indígenas da Amazônia Brasileira. Perché in Amazzonia l’impatto del Covid-19 sulle sue comunità, già discriminate nell’accesso ai beni e ai servizi, si somma a quello del fuoco e della deforestazione, che nessun lockdown è in grado di fermare, come testimonia l’aumento degli incendi nella parte boliviana della foresta: ben 3.368 nelle ultime settimane, oltre mille in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Un impatto che in Brasile è moltiplicato dalle politiche di Bolsonaro, indiscusso campione del negazionismo, dai cambiamenti climatici al coronavirus, che non ha mai smesso di incoraggiare l’assalto alla foresta di cercatori d’oro, trivellatori, coloni.

Predatori di ogni tipo che continuano a spostarsi diffondendo il virus anche nei territori più isolati. Ed è soprattutto in questo modo che l’epidemia si è estesa rapidamente a tutta la regione amazzonica, dai centri urbani dove si sono sviluppati i primi focolai alle comunità disseminate lungo i fiumi della grande foresta. I numeri che pubblica ogni giorno la Red eclesial panamazonica delineano un quadro sempre più allarmante: nelle prime tre settimane di aprile i contagi sono passati da 622 a 8.470, le persone decedute da 14 a 429, con un’accelerazione impressionante negli ultimi dieci giorni. Sono tassi di crescita esponenziale. Di fronte ad essi sale la preoccupazione per la sorte dei popoli che vivono ancora in isolamento, senza contatti con l’“uomo bianco” per propria scelta: circa un centinaio in Brasile, distribuiti in 78 territori.

Popoli che «hanno vissuto in questo modo per lungo tempo, e vogliono continuare a farlo. Sono loro quelli che si prendono davvero cura dell’ultima foresta», ha ricordato al mondo Dave Kopenawa, leader politico e spirituale degli Yanomami, nel suo intervento di denuncia alle Nazioni Unite il 3 marzo scorso. «Ma l’uomo bianco – è la sua amara conclusione – riesce solo a pensare: che cosa ci stanno a fare lì? E quando arriva porta con sé le sue malattie». E se il contagio espone a un rischio altissimo tutte le comunità dell’Amazzonia, per i popoli “incontattati” porta con sé la minaccia dell’estinzione, perché le risposte del loro sistema immunitario sono molto più basse.
Per questo le organizzazioni indigene del bacino amazzonico chiedono a una sola voce che sia rispettata la chiusura dei territori e siano attivati sistemi rigorosi per controllarne l’accesso, con il coinvolgimento delle comunità e delle autorità indigene. Per tutti è questa la prima priorità, e la sua mancata applicazione è la denuncia più ricorrente.

«Non siamo solamente esposti al virus ma all’aumento delle invasioni e dei crimini commessi contro i nostri territori e contro le nostre vite», scrive l’Articulação dos povos indìgenas do Brasil. Le fanno eco le tre confederazioni indigene dell’Ecuador, lamentando l’assenza dello Stato nel porre un argine all’invasione, e sottolineando come «sono state le stesse organizzazioni che hanno adottato misure preventive, e cercato appoggio per impedire l’entrata di attori esterni ai propri territori».
Sul terreno della prevenzione, si punta il dito anche sull’assenza di una strategia di informazione culturalmente…

L’articolo prosegue su Left in edicola dall’1 maggio

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