L’incontro con i Guajajara, nel cuore dell’Amazzonia, ultimo baluardo contro gli assalti della lobby agroindustriale “amica” di Bolsonaro che sta saccheggiando il polmone verde del Pianeta. «Non ci fermeremo. Lo facciamo per tutta l’umanità» racconta convinto Olimpio uno dei capi del popolo resistente

Ci sono popoli custodi che difendono le proprie terre ancestrali, quella che chiamano la loro “casa”, mettendo a repentaglio la vita per salvare l’Amazzonia dalla distruzione. Come ha scritto Marta Guarani, storica leader indigena femminista: «Noi Indiani siamo come le piante, come possiamo vivere senza la nostra terra?». Abitano in simbiosi da millenni con i fiumi, gli alberi, la terra, nella più complessa e autonoma forma di vita vegetale e animale, vivono di caccia e di pesca conservando la ricca biodiversità dei grandi ecosistemi forestali, proteggendo con i propri corpi le terre da boscaioli abusivi a caccia di legno pregiato. Sono vessati anche da cercatori d’oro, i temibili garimpeiros che scavano come talpe furiose la terra in cerca di metalli preziosi, compagnie petrolifere che inquinano le falde acquifere, da imprese turistiche invasive, multinazionali dell’agrobusinnes e violenti fazenderos con la volontà di liberare territori incendiando la selva nella “stagione del fuoco”, per sostituirla con allevamenti intensivi e piantagioni di cereali.

Tra questi popoli decisi a difendere con coraggio le proprie terre, ci sono i Munduruku, che bloccarono la costruzione di una diga a São Luiz do Tapajós, un monumentale progetto idroelettrico voluto dal governo del Brasile e che avrebbe interrotto il fiume Tapajòs, dove pescano e si spostano con le loro canoe, o i Ka’apor,che vivono nel territorio indigeno dell’Alto Turiaçu nello Stato del Maranhão che per monitorare la foresta usano il Gps e hanno istallato telecamere. Ma i più ostinati, diventati ormai un simbolo, sono i Guardiani, che incontrai ad Arariboia nell’autunno di due anni fa, i quali vivono in un cuore verde – cancellato dalla deforestazione selvaggia intorno, dalle strade e dalle ferrovie – e proteggono, facendo loro da scudo umano, un popolo fratello e incontattato, gli Awà.

Il mese prima del mio arrivo era stato barbaramente ucciso Giorginho Guajajara, l’ottantesimo indigeno morto in vent’anni nel territorio di Arariboia, trucidato dai feroci taglialegna abusivi, fu la cosa che più di altre mi convinse a partire. Era stato ritrovato dai suoi compagni vicino a un fiume con il collo spezzato, separato dal corpo, e per calunniarlo gli assassini avevano mandato in giro la voce che fosse ubriaco. Sul loro coordinatore Olimpio, che conobbi, la mafia del legno a Imperatriz aveva messo una taglia, offrendo a un killer 20mila reis per ucciderlo. Girando per il villaggio, ricordo l’ostetrica, una donna anziana dai capelli folti e bianchi, piuttosto determinata, che mi disse che lui era già di carattere forte sin da bambino, aveva tutte le caratteristiche per diventare un capo.

Con Olimpio parlai per un paio d’ore nella capanna dove viveva, mangiammo insieme un pasto caldo, mi mostrò la sua piantagione di banani, e mi raccontò quello che facevano, «pattugliamo la foresta, scoviamo i taglialegna, distruggiamo il loro macchinari e li mandiamo via», disse, mi ricordò gli empate del movimento dei seringueros organizzati dal sindacalista diventato uno dei…

Il reportage prosegue su Left in edicola dall’1 maggio

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