«Oggi il primo problema che abbiamo in agricoltura è quello di reperire la manodopera. Ci mancano, come sostengono tutte le associazioni agricole, tra i 270mila e i 350mila lavoratori e lavoratrici per le prossime campagne di raccolta. Non possiamo permettere che un litro di latte o un chilo di frutta o di ortaggi vengano distrutti perché non abbiamo trovato le persone che si fanno carico della raccolta di questi prodotti. Se non siamo in grado di reperirle dobbiamo dare l’opportunità di lavorare in modo regolare, e non attraverso lo schiavismo dei caporali, anche ai cittadini immigrati che sono bloccati nei ghetti e che negli anni passati hanno lavorato in agricoltura in nero».
La ministra dell’agricoltura Teresa Bellanova, incalzata da Roberto Vicaretti nella trasmissione Studio24 su RaiNews, è stata chiara. Il suo settore ha un grave problema. Mancano braccia disposte a raccogliere fragole, pomodori e prodotti di stagione. E presto i reparti frutta e verdura di supermercati ed alimentari potrebbero restare sguarniti. Per questo motivo si è riaperta in Italia la possibilità di una sanatoria, per regolarizzare i migranti senza documenti presenti nel Paese e disposti a lavorare in campagna. Una proposta per alcuni aspetti senza dubbio positiva, con cui si riconosce finalmente l’esistenza di decine di migliaia di “invisibili” impegnati in agricoltura, che spesso vivono e lavorano in condizioni indicibili. Ma il modo in cui il governo sembra intenzionato a procedere risponde principalmente ad esigenze economiche, mentre il benessere e i diritti del lavoratore finiscono in secondo piano. Senza considerare, inoltre, che restano del tutto aperte le criticità relative alle condizioni igienico-sanitarie a cui sarebbero esposti coloro che andrebbero a lavorare nei campi, ai loro alloggi, ai trasporti, alle loro tutele contrattuali. Temi rispetto ai quali perdura un consueto e preoccupante silenzio.
Ma, per analizzare il problema e le sue possibili soluzioni, partiamo dall’inizio. La penuria di braccianti si è manifestata principalmente per due motivi. Il primo è il blocco delle frontiere, che ha impedito l’accesso in Italia a decine di migliaia di lavoratori stagionali, provenienti perlopiù dall’Est Europa, Bulgaria e Romania in primis. Il secondo è la difficoltà per i lavoratori sans papier che abitano i vari ghetti del Sud (e non solo) di spostarsi e recarsi nei campi, con l’intensificarsi dei controlli di polizia durante il lockdown. Anche coloro che hanno i documenti in regola, in assenza di un contratto non possono muoversi con l’autocertificazione. Mentre i caporali, per paura, hanno fermato i furgoni. A Terracina, solo per fare un esempio, il 19 marzo la polizia ne ha fermati tre che viaggiavano stipati di braccianti: 25 lavoratori di origine bengalese e due italiani che li accompagnavano sono stati denunciati per il mancato rispetto delle disposizioni anti-contagio.
Così, le campagne italiane sono rimaste senza forza-lavoro. Una circostanza che, se consideriamo la disoccupazione al 9,7% di febbraio certificata dall’Istat, sconfessa in un colpo solo due dei luoghi comuni più amati dai fascioleghisti: “Gli stranieri ci rubano il lavoro” (poiché la loro assenza non è stata affatto rimpiazzata agilmente da braccia italiche) e “l’immigrazione irregolare spinge verso il basso tutele e salari” (visto che, anche con la temporanea assenza di un presunto dumping salariale, non si è registrato alcun balzo in avanti di retribuzioni e garanzie per i lavoratori agricoli).
Ora, per assicurare le raccolte in campagna, il governo sta lavorando ad una sanatoria. L’ultima si era avuta nel 2012, col governo Monti, ed era dedicata a colf e badanti. Nelle bozze di decreto che sono circolate negli ultimi giorni si spiega che «al fine di sopperire alla carenza di lavoratori nei settori di agricoltura, allevamento, pesca e acquacoltura», i datori di lavoro che intendano mettere sotto contratto di lavoro subordinato a tempo determinato «cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale in condizioni di irregolarità» possono presentare istanza allo sportello unico per l’immigrazione. Il contratto «non superiore a un anno» genera, dopo una serie di verifiche burocratiche, un permesso di soggiorno, che «può essere rinnovato in caso di nuova opportunità di lavoro offerta dallo stesso o da altro datore di lavoro, fino alla scadenza del nuovo rapporto di lavoro». La misura dovrebbe coinvolgere circa 200 mila migranti. (La ministra Bellanova ha successivamente parlato di «un permesso di soggiorno temporaneo per sei mesi, rinnovabile per altri sei», a cui potrebbero accedere 600mila lavoratori, ma ha anche aggiunto di non «essere in grado di dirlo con certezza», ndr)
«Ciò che serve è una sanatoria per tutti gli stranieri privi di documenti, non solo in agricoltura, e deve essere svincolata dalla necessità di un rapporto di lavoro già esistente. Affidare la richiesta di regolarizzazione al datore di lavoro, come vorrebbe fare il governo, innesta una dinamica di possibile ricatto rispetto alle condizioni lavorative. Senza poi considerare che è difficile, in queste condizioni, un incontro immediato tra domanda ed offerta di lavoro», spiega a Left Sergio Bontempelli, operatore legale ed esperto di questioni legate allo status giuridico dei cittadini, che con l’Associazione Diritti e frontiere (Adif) ha curato una proposta di riforma fondata sulla regolarizzazione di chi è qui senza documenti tramite il rilascio di un permesso di soggiorno per “attesa occupazione”, sull’abrogazione dei decreti Salvini e sulla reintroduzione della protezione umanitaria. La proposta è stata tradotta pure in un testo di legge.
Anche l’Associazione per gli studi giuridici per l’immigrazione (Asgi) ha curato una controproposta simile, che ha raccolto centinaia di adesioni. «Se vogliamo sottrarre le persone prive di documenti al ricatto dei datori di lavoro dobbiamo concedere loro un permesso di ricerca lavoro di almeno un anno – ci dice Nazzarena Zorzella, avvocata e socia Asgi – durante il quale sia possibile trovare un’occupazione. Il nostro obiettivo principale deve essere quello di far emergere le persone da una condizione di invisibilità giuridica. Occorre riconoscere il diritto all’esistenza di uomini e donne che vivono già qui, in Italia, e bisogna farlo a prescindere dal settore in cui sono occupati. Ciò consentirebbe anche una più adeguata tutela della salute collettiva». Un’altra ipotesi è poi quella proposta da Emilio Santoro, docente universitario a Firenze e presidente del centro “L’Altro Diritto”. Egli suggerisce di utilizzare il decreto flussi, cioè il provvedimento con cui ogni anno il governo stabilisce il numero massimo di lavoratori stranieri autorizzati ad entrare in Italia. «Il decreto flussi anche in passato è stato usato per assumere chi già si trovava nel nostro Paese», spiega a Left il docente, «oggi la legge prevede che il visto di ingresso sia rilasciato nel Paese di origine del lavoratore, ma con la pandemia in corso e l’impossibilità di viaggiare si potrebbe prevedere di rilasciare direttamente il permesso di soggiorno in Italia a chi rientra nella quota prefissata. Prevedendo una quota sufficientemente ampia si potrebbero mettere in regola molti lavoratori stranieri, con una piccola modifica alla normativa vigente».
Regolarizzazione a parte, infine, restano inascoltate le richieste dei lavoratori agricoli circa la possibilità di trovare agilmente un impiego e di recarsi nei campi e trovare un alloggio in sicurezza. «L’articolo 8 della legge 199 (anticaporalato, ndr) istituisce le “sezioni territoriali” che hanno il compito di attuare il collocamento, il trasporto e l’accoglienza. Come mai non ci sono ancora in tutta Italia? – ha dichiarato Giovanni Mininni, segretario generale Flai, in un intervento sul Manifesto -. Quelle operative si contano sulle dita di due mani. Perché nel nostro Paese si consente il lusso di non applicare una legge se questa non piace ad alcune Istituzioni e ad una parte del mondo agricolo? Dov’è lo Stato?».
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