Cinquanta inquilini di un palazzo di Bologna, perlopiù giovani e precari, hanno aderito allo sciopero degli affitti, per chiedere alla società di import-export proprietaria dell’edificio la sospensione del pagamento mensile e sopravvivere alla crisi. Una vicenda emblematica delle condizioni materiali in cui versa l’Italia reale

Alle spalle dalla Stazione centrale del capoluogo emiliano, sorge il rione della Bolognina. Nato con una vocazione operaia, proprio a causa della sua vicinanza con la ferrovia, ha mantenuto un forte tratto popolare. I tanti studenti, giovani lavoratori e stranieri che lo abitano vedono oggi coinvolto il loro quartiere in un processo di gentrificazione che lo ha portato ad essere il centro di un enorme progetto di riqualificazione, denominato Trilogia Navile. In queste settimane però è un palazzo del secondo dopoguerra ad aver guadagnato notorietà. I suoi cinquanta inquilini, quasi tutti trentenni e perlopiù precari, hanno aderito al Rent strike, una campagna attuata per la prima volta negli Stati Uniti nel 1839 come forma di protesta degli affittuari contro i grandi proprietari. L’immobile di cinque piani conta 15 appartamenti, 13 dei quali ospitano inquilini che hanno deciso di smettere di pagare l’affitto, almeno fino alla fine della crisi sanitaria.

Al primo piano c’è Maria Elena, un’avvocatessa che si è trasferita da poco nell’edificio e che oggi guida la protesta degli affitti del numero 6 di via Serlio. Racconta le motivazioni che li hanno spinti a far nascere il Rent strike Bolognina: «Abbiamo chiesto la sospensione o una riduzione dei canoni di locazione, legandole all’oggettiva impossibilità di assolvere alla prestazione lavorativa, determinata da cause a noi non imputabili, ossia alla chiusura delle attività produttive, la perdita di lavoro per alcuni e la riduzione degli orari per altri. La società di import export con sede a Roma proprietaria del fabbricato, che risulta inattiva dal 1998, non ci è mai venuta incontro. Ci hanno detto che sarebbe potuta esserci una riduzione del canone, ma avremmo comunque dovuto restituire la quota abbuonata a settembre. È una presa in giro perché non sappiamo ancora se sarà possibile lavorare per molti di noi entro quella data».«La composizione della maggior parte degli inquilini – aggiunge Maria Elena – è di giovani immersi in un mercato del lavoro iper flessibile senza garanzie di alcun tipo. Noi ci aspettavamo, data la situazione straordinaria che stiamo vivendo, una presa di responsabilità collettiva. Nel nostro caso era chiaro che si parlava della nostra sopravvivenza da una parte e dei loro profitti dall’altra. È per questo che abbiamo deciso di proclamare lo sciopero dell’affitto. Purtroppo quando ti trovi davanti a una grande proprietà hai molte più difficoltà di quando ti confronti con un piccolo proprietario. È tutta una questione di umanità, la gestione di un’azienda, il cui unico obiettivo è il profitto, è disumanizzata»…

L’inchiesta è stata realizzata in collaborazione con il progetto Un gioco di società

L’articolo prosegue su Left in edicola dall’8 maggio

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