Il percorso politico per uscire dalla crisi non potrà che essere “di sinistra”, ma, per farsene interprete, la sinistra necessita di un profondo processo di rifondazione culturale.

Dematerializzazione della produzione, straordinario sviluppo dell’economia digitale e dell’informazione a scapito di settori tradizionali, a cominciare dalla manifattura, crescente interconnessione delle catene del valore a livello mondiale, in forme sempre più complesse e difficilmente intellegibili, finanziarizzazione dell’economia, digitalizzazione della finanziarizzazione, crisi delle capacità di governo dell’economia da parte degli Stati nazionali e, al tempo stesso, crisi delle aggregazioni sovranazionali degli Stati, enorme concentrazione del potere e della ricchezza nelle mani di un ristretto numero di colossi economici mondiali, inarrestabile crescita della disuguaglianza, formidabile aumento dello sfruttamento a livello mondiale, pauperizzazione di una quota sempre più ampia di lavoratori, sino alla diffusione di nuove forme di schiavismo. Sono alcuni dei tratti dell’inarrestabile sviluppo del capitalismo a livello mondiale degli ultimi due o tre decenni.

Come impatterà in questo scenario la crisi economica indotta dalla pandemia, la seconda grande crisi economica mondiale di questo primo scorcio di secolo? Quando ci volgeremo a guardare, e potremo vedere, con tutta probabilità apparirà come un potente fattore di accelerazione dei processi in corso. Un ulteriore salto in avanti dell’economia immateriale dell’informazione e della comunicazione, un’espansione e radicalizzazione dei processi di precarizzazione del lavoro, una nuova spinta alla concentrazione della ricchezza. Ma anche un gigantesco acutizzarsi degli elementi di crisi di questo tipo di sviluppo. Crisi ambientale, crisi sociale, crisi culturale.

E, nella crisi, e nella multidimensionalità della crisi, emersione e diffusione sul piano planetario di una nuova consapevolezza dell’esigenza di cambiamento. Esigenza di una rivoluzione nel rapporto tra economia e ambiente, tra economia ed esseri umani. Con tutta l’enorme difficoltà della costruzione di un percorso politico che sappia interpretare tale esigenza. Ma anche, da parte nostra, con una duplice certezza: che il percorso politico non potrà che essere “di sinistra”, ma che, per farsene interprete, la sinistra necessita di un profondo processo di rifondazione culturale.

Andrea Ventura ci ha più volte spiegato, su queste colonne, come il neoliberismo non sia una teoria economica, ma un pensiero e una pratica politica. E si è lavorato insieme, e con altri compagni, ad indagare il sostrato di tale pensiero. Ne venne fuori, tra l’altro, quel volume, L’essere umano e l’economia. Ricerche per una nuova antropologia (L’Asino d’oro ed.), sul quale ha splendidamente riflettuto Noemi Ghetti nel numero di Left del primo maggio 2020.

L’essere umano come “uomo economico”, cioè un essere perfettamente razionale, mosso da un interesse esclusivamente acquisitivo, che persegue tale interesse nel miglior modo possibile, e fa, in tal modo, non solo il suo bene, ma anche quello dell’intera società. È una proposizione che dal Settecento giunge sino a noi: non ha la pretesa di spiegare scientificamente alcunché, bensì quella di prescrivere un comportamento, educare a, trasformare in. È ideologia ed ha implicazioni profonde. Può essere scomposta in due principali elementi: razionalità ed auto-interesse.

Primo aspetto, l’essere umano è tale in quanto razionale, è questo che lo distingue dall’animale. Ma la razionalità si acquisisce, ad alcuni anni dalla nascita, con il pensiero verbale. Il bambino, alla nascita, non può essere detto “razionale”. Cos’è allora, un animale?

Secondo, l’essere umano è esclusivamente auto-interessato (self interested), cioè, nella sostanza, egoista e asociale (la socialità è il portato meccanico, inintenzionale, di un’anonima interazione tra individui che perseguono esclusivamente il proprio interesse, la “mano invisibile”). La proposizione ha implicazioni che vanno ben al di là dell’economico. Se ne ha risonanza nelle teorie psicologiche, e in particolare psicanalitiche di origine freudiana, secondo le quali il bambino sin dalla nascita fa rapporto con l’altro essere umano con l’unica motivazione del nutrimento. Se il bambino non avesse fame, non farebbe alcun rapporto con un oggetto esterno reale. Il neonato, per quanto ancora non razionale, sarebbe già “economico”: “animal oeconomicus”, destinato a farsi “homo” con la piena acquisizione della ragione. Dunque, nessuna socialità naturale degli esseri umani, rapporto umano solo come necessità e convenienza. Una proposizione questa che unisce, nella cultura occidentale, economisti, filosofi politici, psicologi (con alcune eccezioni, come quella, illustre e cara, di Marx).

Si affollano …

L’editoriale prosegue su Left in edicola dal 26 giugno

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