Doveva essere il completamento delle grandi direttive europee sui quattro elementi cosmogonici, fuoco, acqua, aria e terra. Per energia, acqua, aria, direttive quadro ci sono. Per il suolo invece tutto si è impantanato e nonostante l’approvazione di un testo avvenuta all’Europarlamento nel 2008 il Consiglio Europeo ha fatto marcia indietro nel 2014, a fronte del «no» di molti Stati. Tra le motivazioni addotte all’epoca, si contano anche quelle di matrice sovranista, per cui il suolo sarebbe la terra che si calpesta, quindi la Patria. E quindi se ne devono occupare le Nazioni.
Più prosaicamente i motivi dell’opposizione stavano e stanno negli enormi interessi che gravitano sui suoli europei. A partire da quelli immobiliari e industriali. Solo dal punto di vista immobiliare l’Eurostat mostra come il valore degli immobili in Europa sia cresciuto negli anni tra il 2000 e il 2008 quasi ovunque ben sopra l’inflazione, con la Francia a quota +7,5% l’anno, la Spagna +8,1, la Gran Bretagna +7,5, l’Italia +3,6%, alcuni Stati dell’Est superano il 10%. La crisi finanziaria ha poi colpito dal 2008 ma già nel 2016 è cominciata la risalita.
E l’opposizione sta anche sugli enormi problemi di degrado di cui soffrono i suoli. Il testo proposto ed approvato dal Parlamento europeo aveva per di più le caratteristiche di una normativa realmente ecologista che trattava il suolo come elemento vivo, connesso alla fertilità, all’equilibrio climatico, ai cicli vitali.
Un suolo dunque che va bonificato e tutelato. Addirittura con regole che prevedevano per la commercializzazione certificati di avvenuta bonifica. Si pensi che la quantità dei suoli non utilizzabili a fini alimentari perché contaminati nel mondo è stimata intorno al 15% e che in Europa si stimano circa tre milioni di siti potenzialmente contaminati dei quali solo 115 mila sottoposti a risanamento (dati European soil data center). E che il Join research center della Commissione europea di Ispra (Varese) in un rapporto del 2016 parla di percentuali del 6,24% di campioni di terreno – che corrisponderebbero a 173 mila km quadrati di suolo agricolo – con contaminazioni di metalli pesanti sopra al valore di riferimento fissato per i terreni agricoli stessi e del 2,56% che chiederebbe bonifica.
Si pensi che il processo di cementificazione e consumo di suolo procede in Europa a ritmi di circa 250 ettari al giorno al punto che la percentuale di quello coperto in Europa è del 4,3% (dati Eurostat), ma in Italia del 7,64%, cioè quasi doppia, in Lombardia del 17,3% (dati Ispra), avendo proceduto l’Italia tra il 2009 e il 2012 ad un aumento doppio rispetto alla Spagna, di 5 volte a fronte della Germania e di 10 la Francia.
La battaglia per avere una direttiva sui suoli non si è mai fermata. L’Ue l’ha sostituita con una “Strategia per i suoli”, in cui cerca di impegnare gli Stati membri. Ma questo non è assolutamente sufficiente. E infatti ci sono campagne che rimarcano il Soil for life, il suolo per la vita, e che richiedono che si torni alla direttiva quadro. Essa per altro è fondamentale e indispensabile per i numerosi elementi trasversali che legano i suoli a più politiche, dall’agricoltura, all’urbanistica, alla lotta al cambiamento climatico, alla desertificazione ed agli inquinamenti, agli assetti idrogeologici.
Ora, si può pensare che a questa battaglia per ottenere una direttiva si possa legare una politica attiva e diretta dell’Ue che affronti di petto una delle questioni centrali e cioè le bonifiche e i risanamenti? E in che modo si potrebbe realizzare? Ad esempio dotandosi di un braccio operativo europeo, preferibilmente pubblico, che opera le bonifiche. Finanziato da “eco tasse” europee destinate a chi ha inquinato e inquina i territori ma anche alle grandi rendite fondiarie. Una agenzia europea per le bonifiche che impieghi competenze, tecnologie e lavoro. Cioè che sia un “campione” di economia ambientale. Che faccia vivere il suolo europeo come comune proprio andando a conoscerlo, risanarlo e riconsegnarlo ai cittadini.
Conoscere ciò che è avvenuto nei suoli significa ricostruire anche la storia degli insediamenti industriali europei, della sua merceologia – cosa che tanto appassionava Giorgio Nebbia, uno dei fondatori dell’ambientalismo italiano -. Condividerla oltre i segreti industriali. Costruendo una valida sponda a quei pochi esempi di integrazione attiva fatti in questi anni in Europa. Penso al Reach, il regolamento per le autorizzazioni alle sostanze chimiche, approvato nel 2008 dopo 20 anni di lavoro e che ha alla base il concetto di una autorizzazione unica europea, con obblighi sanitari e ambientali stringenti, la dimostrazione di non nocività, l’immediata sostituzione in caso di avanzamenti scientifici e quindi con autorizzazioni sempre a tempo.
Il contrario delle differenziazioni autorizzative, normative e fiscali che molti cercano di fare per sé in Europa. Nascondendosi dietro parole come semplificazione e sburocratizzazione. Ciò che dà efficacia alle cose, al contrario, è pensarle perché creino un vantaggio il più possibile condiviso. Condividere il suolo europeo, le sue norme e la sua bonifica è un ottimo esempio. Esempio che si potrebbe estendere alle riconversioni ambientali di siti industriali. Cioè di una politica di riconversione ecologica. Taranto sarebbe un ottimo inizio.
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