La metafora che si usa quando accadono episodi violenti e criminali come quelli per cui sono indagati i carabinieri di Piacenza è molto riduttiva. Ed è un alibi che cela profonde carenze etiche e di cultura democratica radicate nelle forze dell’ordine. Dai vertici in giù

L’ordinanza è stata firmata 19 luglio, anniversario della morte del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta. «Servitori dello Stato che persero la vita compiendo il proprio dovere – scrive il gip -. A loro si dedica questo atto di giustizia». L’atto in questione è quello relativo agli arresti dei carabinieri della caserma Levante di Piacenza. Un episodio (l’ultimo, per meglio dire, in ordine temporale) che getta ulteriore fango su quelle forze di polizia ormai al centro di una discussione mondiale dopo l’omicidio di George Floyd, e che arriva contestualmente al rinvio a giudizio dei carabinieri imputati come responsabili dell’uccisione di Serena Mollicone. Affidare tutto alla magistratura perché la giustizia faccia il suo corso sarebbe operazione pilatesca perché non va alla radice di un problema che si ripropone ciclicamente («Quanti sono i cesti pieni di mele marce?» ha dichiarato la mamma di Federico Aldrovandi).

È giunto cioè il momento che l’opinione pubblica spinga per una rivoluzione culturale di rifiuto della violenza che dall’inizio di questo millennio, invece di scemare parallelamente alla crescita di una ultramodernità dai molteplici effetti speciali e dai notevoli vantaggi, è andata crescendo anch’essa nel nome di una supremazia familiare (vedi i tanti femminicidi), sociale (vedi i rapporti servo-padrone oggi così vigorosamente “rinfrescati”), statale (vedi appunto i troppi casi di violenza esercitata dalle forze dell’ordine, ponendo come anno zero il 2001 di Genova).

Il modello autoritario – non autorevole, ahimè, ché quello si conquista, non si riceve – delle forze di polizia (intendendo per esse sia quelle del ministero dell’Interno, che della Difesa) trasluce quei segni dei…

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