In questi giorni Madrid è la capitale europea dei contagi, le cifre inquietano, non accennano a diminuire, né a fermarsi. Dalla mezzanotte del 20 settembre e per i prossimi quattordici giorni 877mila persone – oltre un decimo dei 7 milioni e mezzo che abitano nell’area metropolitana – vivono un nuovo lockdown. È un confinamento arbitrario che colpisce solo la zona a sud della capitale, quella dove ci sono molte comunità di immigrati e dove risiedono le fasce della popolazione più povere. Sono tutti quartieri a basso reddito, quelli più colpiti dalla crisi sociale legata alla pandemia. L’idea balzana e classista è quella di contenere così i contagi che, in quelle periferie, hanno superato, nell’ultima settimana, i mille casi ogni centomila abitanti.
Rabbia, caos e confusione è stata la risposta dal primo giorno di quella che è stata definita dagli abitanti dei quartieri e dei comuni interessati una reclusione discriminatoria. Solo loro, infatti, sono sottoposti al rigido controllo della mobilità e possono uscire dalla zona dove vivono unicamente per andare a lavorare, per assistere a una convocazione in tribunale o per sbrigare formalità burocratiche e sanitarie. Al di fuori di questi casi possono spostarsi eclusivamente all’interno del quartiere, senza però entrare nei parchi, che sono stati chiusi, o incontrare più di sei persone. Da una parte i poliziotti in tenuta antisommossa a presidiare i varchi di entrata e uscita dei quartieri confinati e dall’altra gli striscioni che arredano le saracinesche dei locali chiusi: “Siamo quartieri non siamo ghetti”; “Confinati quando torniamo a casa dopo aver attraversato Madrid, in una metro affollata, per venire a pulire le tue strade, per accudire ai tuoi genitori vecchi e malati, per consegnarti il pranzo preparato dal ristorante o il pacchetto di Amazon dei tuoi acquisti online”; “Non siamo un virus, siamo un popolo”.
L’amministrazione regionale ha chiesto l’intervento dell’esercito e il consiglio comunale di Madrid ha fornito alla propria polizia le pistole taser che potranno essere utilizzate, contro chi infrange le regole, a partire da ottobre. Mentre nessuna misura è stata decisa nel campo della salute per contrastare davvero la diffusione dei contagi, per assumere altro personale sanitario nelle strutture pubbliche nuovamente in affanno.
È tutta la Spagna a fare i conti con una nuova e aggressiva diffusione del virus, chissà se è davvero quella seconda ondata che si teme, ma Madrid sembra una città fuori controllo. È il risultato della gestione di tutta la regione in mano alla destra con la presidente Ayuso e con Almeida, il sindaco della capitale, entrambi del Partito Popolare. La loro amministrazione ha sottovalutato le misure del primo stato d’allerta per la pandemia, ha lasciato che i negazionisti di Vox, fomentati da Miguel Bosé, manifestassero indisturbati nei quartieri bene della città, ha continuato a smembrare la sanità pubblica, soprattutto quella territoriale, ha preferito grandi strutture ospedaliere con personale sanitario insufficiente mentre finanziava le strutture private; scaricando la colpa dell’impennata di contagi a Madrid sullo “stile di vita dell’immigrazione”.
Di fronte alla situazione convulsa il presidente del governo Sánchez ha accettato di incontrare la presidente della regione di Madrid Ayuso, hanno parlato e trovato un accordo per un meccanismo di coordinamento, uno “spazio di cooperazione”, che però non vuol dire accettare le scelte del governo regionale delle destre da parte del governo progressista. «Il virus non capisce le ideologie», ha detto Sánchez per giustificare il dialogo con l’amministrazione di destra e facendo trapelare il desiderio di allargare il più possibile la maggioranza di appoggio al governo del Paese per far approvare senza intoppi, i prossimi mesi, la finanziaria.
Ma le misure adottate dalla presidente Ayuso restano legate alle “politiche classiste e razziste” con cui il governo della Comunità di Madrid sta affrontando questa seconda ondata della pandemia, come si legge in un manifesto scritto da chi risiede nelle zone bloccate dal lockdown. «Per i governi siamo la manodopera a basso costo di questa ‘città globale’, siamo il luogo dove si trova tutto ciò di cui la città ha bisogno, ma che non vuole vedere – impianti di trattamento delle acque reflue, inceneritori, industrie che hanno inquinato per decenni – poi siamo noi a essere confinati quando le cose non vanno bene». I quartieri delle 37 aree interessate si sentono isolati, stigmatizzati, ingiustamente accusati di irresponsabilità nei loro rapporti sociali e familiari, manifestano il loro rifiuto e chiedono un trattamento equo e non discriminatorio.