Partigiano nella Resistenza slovena, deportato nei lager nazisti, lo scrittore, a quasi 108 anni, continua a lottare per verità e giustizia. Indignato per «le bugie sulle foibe», sogna che l’Italia diventi davvero «una democrazia ricca e libera»

È la storia drammatica e appassionante di un partigiano e combattente delle idee e della libertà quella che Boris Pahor ha scritto con la sua vita e suoi scritti. 108 anni di integrità e coraggio al quale non ha rinunciato neanche quando nel luglio scorso Mattarella gli ha conferito l’onorificenza di cavaliere della Gran croce: «Un riconoscimento che ho accolto dal presidente della Repubblica con sincera gratitudine» ci dice al telefono. «Ma – precisa lo scrittore – deploro la fallace e pericolosa narrativa sulle foibe propalata con la Giorno del ricordo».

Dell’orrore e della disumanità del nazifascismo Pahor ha scritto in molti libri raccontando i due anni terribili passati in cinque campi di concentramento: Natzweiler, Dachau, Dora, Harzungen e Bergen Belsen. Già a 6 anni nella sua Trieste ebbe il primo scioccante incontro con azioni squadriste. Nella sua memoria sono ancora vive le fiamme dell’incendio del 13 luglio nel 1920 del Narodni dom, la casa della cultura slovena. Quel rogo dei libri mostrava la persecuzione verso il popolo sloveno autorizzandola. Il fascismo impediva qualsiasi forma di espressione associativa e di pensiero agli sloveni. E ne colpiva l’identità culturale proibendo loro l’uso della propria lingua, come Pahor ha raccontato in Qui è proibito parlare (Fazi editore) e Piazza Oberdan (Nuova dimensione). Anche per questo entrò nel Tigr, la resistenza slovena. Poi l’arresto da parte della Gestapo, i vagoni piombati, la stella rossa di prigioniero politico nei lager. Di tutto questo, con grande forza e umanità, ha scritto in Necropoli (Fazi).

Oggi come allora Boris Pahor si interroga sulle radici di quello sterminio lucido perpetrato dal nazifascismo e sull’omertà e l’indifferenza che ne furono il terreno di coltura. Ieri rispetto agli ebrei e oggi rispetto ai migranti che muoiono nel Mediterraneo e che vengono denudati, derubati e respinti lungo la rotta balcanica. Denunciando le conseguenze che potrebbero avere nel presente il tradimento della memoria, il negazionismo e la falsificazione della storia. A indignarlo in particolare è «La pletora di falsità che hanno accompagnato l’istituzione de il Giorno del ricordo che dal 2004 si celebra il 10 febbraio, senza menzionare esplicitamente i crimini fascisti contro gli sloveni nel ventennio fascista», come ha scritto insieme a Tatjana Rojc in Così ho vissuto (Bompiani). Ed è sulla pericolosità di questa narrazione che, nell’avvicinarsi dell’anniversario, Pahor vuole richiamare la nostra attenzione.

«Vorrei fare un riconoscimento al secolo trascorso dicendo che dobbiamo usarlo molto bene» esordisce, riprendendo immediatamente il filo della conversazione avviata dal collega Marino Calcinari (v. box): «Non mi capacito come sia possibile che anche massime cariche dello Stato colte e intelligenti possano dire che gli jugoslavi, ossia gli sloveni di sinistra, avrebbero sistematicamente mandato gente alle foibe, non è accettabile. La narrazione sulle foibe è basata su una bugia molto pericolosa. Che messaggio diamo ai giovani? Se diciamo loro una cosa non vera, ossia che gli sloveni di sinistra si sono vendicati, potremmo suscitare il pensiero che sia bene che arrivi una forza autoritaria per fare ordine in Italia». Quale dovrebbe essere dunque per lei, Boris Pahor, il senso del Giorno del ricordo?

«Si dovrebbero ricordare gli esuli. Ripeto, dire che gli sloveni si sono vendicati è una sporca menzogna. Anzi, ai militari fu detto: la guerra è finita, lasciate qui le armi e andate a casa. Potevamo fare dei prigionieri, ma abbiamo detto: siete liberi, andate a casa. Intanto i tedeschi erano già scesi a Milano. Alla stazione di Trieste c’erano i carabinieri. Io ho tagliato la corda, sono salito su un treno che mi ha portato a Miramare e sono salito in montagna per fare la lotta partigiana. Su quel treno che procedeva a fatica, piano piano, c’erano tanti altri giovani come me. All’epoca i giovani li mandavano a San Saba a lavorare per poca paga, ma noi abbiamo scelto un’altra strada».

La voce qui si fa più flebile quasi un soffio. Grazie professore delle sue parole, abbozzo, non voglio stancarla troppo. «Aspetti – mi ammonisce con garbo – vorrei che lei riportasse su Left che lo scrittore Boris Pahor ha scritto una lettera al presidente della Repubblica ricordando che la storia delle foibe è una bugia, certo non posso chiedergli di ritrattare il suo discorso, ma potrebbe sottoscrivere e rilanciare quanto ha dichiarato l’Unione italiana slovena di cultura e di storia che ha lavorato sei anni per scoprire la verità storica». Impossibile mettere sullo stesso piano partigiani comunisti e ragazzi  di Salò pena il tradimento della memoria di chi ha dato la vita per la democrazia e la libertà. «La verità è che abbiamo sperimentato una feroce dittatura nazifascista. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta – sottolinea con orgoglio -. Anche la casa di cultura slovena è stata riparata, ora è come nuova. Dunque sono stato contento di accettare il premio che il presidente della Repubblica mi ha conferito, parlando dei campi di concentramento. Lo ringrazio e offro il premio alla memoria delle vittime del fascismo, è importante non perdere la memoria dei luoghi, dei volti, delle storie».

Trieste è stata ed è uno straordinario crocevia di storie e culture, ma anche uno sfaccettato laboratorio di resistenza. Lo stesso Pahor da intellettuale di ispirazione cristiano democratico diventò partigiano di sinistra. Mentre si ricorda il centenario della nascita del partito comunista gli chiediamo quale fosse la sua posizione. «Io non sono mai stato anticomunista», risponde Pahor. «Sono sempre stato amico del comunismo che lotta per la dignità e la giustizia per i diritti dei lavoratori. Ho attaccato il comunismo quando è diventato dittatura. Non posso dire che Tito non avesse delle buone idee, ma è stato un dittatore. C’erano comunisti che erano contro la dittatura, ma non contavano, li mettevano ad attaccare i francobolli. Invece erano loro i veri comunisti».

Accadeva nella Repubblica socialista federale di Jugoslavia dell’epoca di Tito ed era accaduto in Urss. «Lenin voleva la dittatura del proletariato ma il proletario non deve mai diventare dittatore, il proletariato deve costruire una società solidale, libera, democratica. Morto Lenin, Stalin prese in carico il progetto di fare la dittatura, costruendo campi di concentramento in Siberia purtroppo facendo man bassa dei comunisti democratici. Chi è per me un comunista democratico? È un uomo che combatte con me per la libertà e la cultura delle minoranze, in Italia ci sono 12 minoranze linguistiche che chiamiamo nazionali, coscienti di essere italiani parlano un dialetto greco, un dialetto sloveno, un dialetto ladino, ecc. Siamo italiani grazie e per il dialogo», dice evocando il suo lungo impegno in questo ambito come direttore di riviste e animatore del dibattito culturale.

«Posso concludere con un augurio? Che la democrazia in Italia sia ricca, libera, non dittatoriale. La sinistra democratica ha diritto di vivere completamente libera. Che le pare? Potrebbe un bel titolo per questa nostra conversazione: “La sinistra democratica è ciò che vogliamo dice Pahor, la sinistra sì ma democratica”. Mi piacerebbe leggerlo su Left».

 


L’intervista è tratta da Left del 22 gennaio 2021

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SOMMARIO

Direttore responsabile di Left. Ho lavorato in giornali di diverso orientamento, da Liberazione a La Nazione, scrivendo di letteratura e arte. Nella redazione di Avvenimenti dal 2002 e dal 2006 a Left occupandomi di cultura e scienza, prima come caposervizio, poi come caporedattore.