I dati sulle mutazioni del coronavirus ci “dicono” che le misure di contenimento vanno irrigidite e che la vaccinazione deve essere più veloce, osserva il virologo e aggiunge: «Così si può arrivare più in fretta a una convivenza più civile col virus»

Come agiscono le nuove varianti del coronavirus e perché dobbiamo temerle? Quale sarà il loro impatto sull’efficacia di vaccini, terapie e screening? Qual è la strada più efficace che la scienza ci indica per poter affrontare questa delicatissima fase della pandemia, alla vigilia di un probabile innalzamento delle curve del contagio, e dunque della conta giornaliera di positivi, ricoveri e decessi? Abbiamo fatto il punto della situazione con Fabrizio Pregliasco, virologo e direttore dell’Istituto Galeazzi di Milano.

Innanzitutto dottore, cosa sono queste varianti e come funzionano?
Si tratta di un fenomeno che ci aspettavamo con certezza, perché tutti i virus tendono a modificarsi e a trovare nuove varianti più efficaci. I virus a Rna, come il nuovo coronavirus o quello dell’influenza, in particolare, sono molto bravi in questo. Perché commettono errori di replicazione con grande frequenza, che permettono loro di sfruttare a proprio vantaggio il principio darwiniano del caso e della necessità. Questi errori infatti talvolta rendono il virus più infettivo. Questo patogeno, ricordiamolo, è diventato pandemico grazie ad una sua peculiarità, quella di generare infezioni inapparenti in una grande quota di persone. Qui risiede la sua forza. Contrariamente ad esempio al virus Ebola, che possiamo considerare più “stupido”, nel senso che aggredisce in modo pesante la persona, spesso la uccide, e questo rende molto più difficile la sua trasmissione. Intorno a sé fa rapidamente terra bruciata, per così dire, e sono sufficienti misure di quarantena per arginare la sua diffusione.

Perché si parla principalmente delle varianti brasiliana, inglese e sudafricana?
Occorre fare una premessa. Le mutazioni rilevate della sequenza genetica del Sars-Cov-2 sono circa 12mila. Ma molte sono irrilevanti. Quelle che ci interessano son quelle che presentano mutazioni particolari, che modificano ad esempio la conformazione della proteina Spike, “l’uncino di aggancio” del virus, rendendola più efficace. Le varianti di cui stiamo parlando in questi giorni, quella inglese, sudafricana e brasiliana – denominate col primo luogo in cui le abbiamo rintracciate, che potrebbe però non essere il luogo in cui si sono generate – evidenziano una maggior carica virale a livello salivare, a livello delle vie aeree. Dunque una carica virale più facilmente diffusiva. La patologia che provocano di per sé non pare essere più letale, ma l’effetto indotto, il maggior numero di casi, determina una maggiore mortalità.

Quanto sono diffuse queste mutazioni?
In base alle stime campionarie elaborate dall’Istituto superiore di sanità (Iss), la variante inglese avrebbe il 17,8% di diffusione in Italia. Ma potrebbe essere una stima da rivedere al rialzo. L’individuazione delle varianti avviene attraverso un’indagine di secondo livello che si esegue sui test positivi, il cosiddetto sequenziamento, cioè l’individuazione di…


L’articolo prosegue su Left del 19-25 febbraio 2021

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