La crisi economica e politica di questi ultimi anni è sicuramente alla base della pessima gestione della pandemia in Brasile. Ma se a guidare il Paese c’è una figura priva di empatia umana, lungimiranza, capacità di mediazione e di dialogo, tutto si fa più complicato

Dopo un anno di pandemia la situazione sanitaria in Brasile è letteralmente tragica. In queste prime settimane di marzo si è arrivati a superare gli 80mila casi ufficiali e i 2.200 morti al giorno, con numeri che, fatte le dovute proporzioni, solo gli Usa hanno raggiunto nella fase prevaccinale e nelle prime settimane di vaccinazione. Buona parte delle strutture sanitarie sono al collasso, soprattutto a causa della diffusione delle varianti più contagiose e letali.

La vaccinazione è ancora agli inizi, la percentuale di vaccinati con la prima dose è del 4,57% (dopo un mese e mezzo) e dovrebbe accelerare solo a partire da aprile o maggio, se le consegne della materia prima dall’estero e i ritmi di produzione non subiranno intoppi. Il Brasile, pur non essendo paragonabile alle economie più strutturate del mondo, non è un Paese povero (la distribuzione della ricchezza è qui assurdamente e vergognosamente disuguale, questo sì) e, soprattutto, ha una grande esperienza con malattie tropicali endemiche ed epidemie, ha già organizzato campagne di vaccinazione imponenti ed eseguite in tempi rapidi, tanto che alcuni dei suoi laboratori di ricerca e produzione di  vaccini e antidoti, come l’Istituto Butantã e il Fiocruz, sono tra i migliori al mondo.

Ma allora, perché questa impreparazione e ripetizione di errori di altri Paesi nel contrastare la diffusione e gli effetti della pandemia? La crisi e la frammentazione politica di questi anni sono sicuramente alla base delle difficoltà di gestione della pandemia. Ma vediamo, nello specifico, alcune questioni.

La presidenza della Repubblica è attualmente occupata da una figura non adeguata a…


L’articolo prosegue su Left del 19-25 marzo 2021

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