Un mega progetto muove enormi quantità di denaro con la falsa promessa di lavoro e sviluppo. Come dimostrano Tav, Mose e Bre.Be.Mi. Intanto della messa in sicurezza del territorio, annunciata dopo il disastro del ponte Morandi, non c’è più traccia

“I soldi ci sono, ora bisogna correre”. Il mantra risuona a reti unificate. Le “riforme” per “rimuovere gli ostacoli agli investimenti” sono la nuova formula magica della politica ai tempi del Recovery fund. Una propaganda ossessiva che eccita l’immaginazione, promette opere rivoluzionarie, sviluppo e lavoro. Ma, finiti gli annunci, restano solo costi esorbitanti e corruzione, precarietà e devastazione ambientale. E il Paese, intanto, continua a piangere le vittime dell’incuria quotidiana.

Lo chiamano il “paradosso delle grandi opere” e funziona più o meno così: un mega progetto muove grandi quantità di denaro con la promessa, sostenuta da politici e mass media, di lavoro e sviluppo. Ma questi benefici sono destinati a restare solo sulla carta: «Più i mega progetti si diffondono nel mondo, più risulta chiaro che i risultati sono ampiamente sotto le aspettative, sia in termini economici che ambientali», scrivevano già nel 2003 gli autori di Megaproject and risk: an anatomy of ambition, libro pubblicato dall’università di Cambridge e ancora oggi l’opera più citata dalla letteratura scientifica nel campo della pianificazione delle grandi opere. «I costi superano in maniera netta i guadagni previsti, quasi sempre sovrastimati», aggiungono gli autori che sottolineano anche il ruolo dei politici impegnati nella «politicizzazione del dibattito» e nel «promettere, per fini elettorali, benefici che non si realizzeranno mai».

Che le grandi opere fossero più utili alla propaganda politica che allo sviluppo delle comunità era anche la conclusione alla quale, già agli inizi del ’900, era arrivato il politico meridionalista Francesco Saverio Nitti. Analizzando le politiche per il Sud nel trentennio successivo all’Unità d’Italia, Nitti sostenne che la creazione di una rete di infrastrutture slegata dalle reali necessità del tessuto socio-economico del Meridione aveva, da un lato, aggravato il divario con il Nord e, dall’altro, garantito alle classi di politici-notabili ottimi argomenti di propaganda per consolidare il proprio potere clientelare. Le nuove reti ferroviarie, sosteneva ad esempio Nitti, avevano garantito alle imprese del Nord l’accesso alla manodopera a basso costo del Sud mentre politici e proprietari terrieri del Meridione si spartivano i ricchi proventi degli investimenti statali.

Ma se la politica si alimenta di questo paradosso, anche i mezzi d’informazione giocano un ruolo. Un esempio è lo scarso rilievo dato, lo scorso giugno, al parere della Corte dei conti europea sulla Tav Torino-Lione. Nonostante la grancassa mediatica che solitamente accompagna l’opera, infatti, le conclusioni dei giudici di Bruxelles hanno trovato poco spazio nel dibattito pubblico. Eppure, queste appaiono chiare: la Tav è un’opera inutile e dannosa. Inutile, perché le previsioni di crescita degli scambi commerciali tra Italia e Francia fatte agli inizi degli anni 90 non si sono mai realizzate. Dannosa, perché, con…

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L’autore: Michele Bollino è giornalista dell’agenzia di stampa Dire


L’articolo prosegue su Left dell’11-17 giugno 2021

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