«Certi scenari non sono fantascienza, gli effetti del climate change sul patrimonio paesaggistico e culturale ci chiamano a fare prevenzione nel più breve tempo possibile», avverte il climatologo e divulgatore scientifico

Il Bel Paese dell’arte, del patrimonio diffuso è anche un territorio a grande rischio sismico, di grande fragilità idrogeologica aggravata dal consumo di suolo e da tanti anni di deregulation urbanistica. Su questa realtà territoriale già compromessa impattano ancor più gravemente gli effetti del climate change. Con risultati potenzialmente devastanti per il paesaggio e per il patrimonio d’arte e architettonico. Come riuscire ad evitare il peggio? Come invertire la rotta? Lo abbiamo chiesto a Luca Mercalli, autore di numerosi libri, fra i quali Non c’è più tempo (2018) e Salire in montagna (2020), pubblicati da Einaudi.
«La cementificazione, il consumo di suolo e il cambiamento climatico sono temi strettamente collegati. E si portano dietro altri problemi che toccano anche la nostra salute», risponde il climatologo e divulgatore scientifico che il 4 marzo, con Left, interverrà a Pillole di ArteScienza, la serie di webinar organizzati e coordinati dalla senatrice Michela Montevecchi.
«Noi cementifichiamo il territorio, costruiamo discariche, non facciamo raccolta differenziata dei rifiuti. A lungo andare tutto questo diventa un boomerang per il nostro benessere e cancella la biodiversità».

La cementificazione ha un effetto devastante sul paesaggio e sul patrimonio storico artistico. Ma ci sono forze politiche come Lega, e non solo, che premono per lo sblocco dei cantieri, per la costruzione di grandi opere ad alto impatto ambientale.
Se parliamo di paesaggio, beni culturali e turismo, la cementificazione del suolo doverebbe essere assolutamente fermata. È una emorragia che non ci possiamo più permettere. I danni che produce sono ben noti anche a livello governativo, ma la legge contro il consumo di suolo è ferma dal 2012 e non c’è verso di approvarla, perché ci sono le solite pressioni da parte del mondo dell’edilizia, delle costruzioni e della rendita fondiaria. Gli effetti del climate change sul patrimonio culturale ci chiamano a fare prevenzione nel più breve tempo possibile. Ogni Paese al mondo deve fare la propria parte per ridurre l’impatto sul clima, ma ogni area avrà problemi differenti a causa del cambiamento climatico. In Italia sono previsti quasi tutti. Gli eventi estremi stanno diventando più intensi. Pensiamo per esempio alle alluvioni, se diventano più frequenti anche il nostro patrimonio storico viene messo più a repentaglio. Registriamo anche l’aumento del livello del mare; è il grande spettro dovuto all’aumento della temperatura. Tutti gli oceani del mondo stanno salendo e il Delta del Po e Venezia sono tra le realtà più fragili, fra le più sensibili al mondo.
Non è un film di fantascienza dire che Venezia sarà sommersa continuativamente alla fine di questo secolo. Dovremo cominciare a parlarne e a prenderlo in considerazione come uno dei grandi scenari da evitare qui, a casa nostra, non in Bangladesh o in Florida.

La storia millenaria di Venezia è il frutto di un buon governo del territorio. La manutenzione ha mantenuto l’equilibrio fra laguna e città. Poi però con lo sfruttamento turistico intensivo della città, con il transito delle grandi navi, è stato spezzato questo equilibrio?
Questi sono elementi peggiorativi, locali, ma quando parliamo di cambiamento climatico parliamo di eventi che non abbiamo ancora visto e che arriveranno. Sono indipendenti perfino da come noi oggi trattiamo la laguna, sono scenari inediti che Venezia non ha mai visto. Se il mare cresce di un metro non è questione di manutenzione. Di fronte a tutto questo cosa facciamo? Questa è la domanda. Nessuno ha ancora dato una risposta. Lei ha un’idea su come salvare Venezia tra cento anni quando ci sarà acqua alta ogni giorno?

In questo quadro il Mose serve a ben poco, immagino, giusto?
Il Mose non serve, è una pezza temporanea, al limite può avere un senso per i prossimi 10/20 anni, ma non è risolutivo con un aumento permanente del livello del mare. Dunque partendo da un caso emblematico come Venezia bisogna in primis accettare il problema, perché qualcuno ritiene che sia fantasticherie, che siano balle. Se lei dice che Venezia verrà sommersa per sempre a fine secolo, la guardano con due occhi così, le dicono che è catastrofista. E invece emerge dai dati delle Nazioni Unite, dei nostri istituti di ricerca, dai dati contenuti addirittura nella strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici che è un documento ufficiale depositato al ministero dell’Ambiente. Ma non sappiamo ancora cosa fare.

Perché c’è questa inerzia, mancanza di reazione, non risposta, rispetto a questa allarmante evidenza scientifica?
È un problema che riguarda tutte le questioni ambientali. Lo stiamo “rimuovendo” perché ci richiede un impegno, economico e individuale, esattamente come la pandemia. Il coronavirus ci ha fatto vedere tutte queste dinamiche della società. Finché non abbiamo avuto il morto in casa non abbiamo preso provvedimenti. Un anno fa se qualcuno diceva di mettere la mascherina veniva mandato a quel paese. Invece avremmo dovuto indossare la mascherina dal primo momento in cui sono uscite le prime notizie sul virus a Wuhan. Se l’avessimo fatto avremmo guadagnato due mesi e forse ci sarebbe stato qualche migliaio di morti in meno. Riguardo al clima è lo stesso, non si parla di mesi, ma di anni, ma la dinamica è identica. Purtroppo non possiamo aspettare che l’oceano aumenti di un metro per dire, ah ecco, da domani agiamo. Sarebbe tardi, non si potrebbe più fare. Bisogna farlo prima, bisogna farlo adesso.

Vede consapevolezza nella politica o almeno pratiche virtuose?
Pratiche virtuose ce ne sono ma sono gocce nel mare. Quel che vedo nella politica è la mancanza di una direzione. Ci sono consapevolezza, annunci, tanti, tante chicchere. Fanno delle azioni che, però, spesso sono contraddittorie, perché la politica non ha il coraggio di estirpare il marcio sostituendolo con il virtuoso. Al limite lo affianca, lascia il marcio e ci aggiunge qualcosa di virtuoso. È inutile costruire piste ciclabili se più in là piazzo un capannone industriale. Piantiamo l’alberello, facciamo la festa con i bambini, e accanto si costruisce la nuova autostrada. Le due cose non possono convivere.

Bisogna cambiare radicalmente modo di produzione, stili di vita…
Cambiare tutto, esatto. E soprattutto bisogna fermare l’emorragia di consumo di suolo. Stiamo parlando di metri quadrati al secondo. La politica ambientale va fatta con un sistema da pronto soccorso, dove non c’è tempo di stare lì a fare gli esami del sangue al paziente. Bisogna aprirlo dopo due minuti che è arrivato se lo vuoi salvare. Mentre qui continuiamo a fare convegni, a parlare, a esternare buoni propositi e la ruspa continua a girare.

 cittadini dovrebbero far pressione sulla politica perché ci sia finalmente una svolta?
Lo strumento principe dovrebbe essere il voto. Diciamo però che in Italia le proposte verdi non è che siano tante; c’è un imbarazzante vuoto di rappresentanza sul tema ecologico.

Come vede questo super ministero per la transizione ecologica affidato da Draghi a Roberto Cingolani?
Non lo vedo bene perché le scelta della persona a cui affidarlo non è coerente. Nessuna delle personalità che studiano l’ambiente è stata messa in quel ministero. È stato affidato a un tecnologo. Alla guida di quel ministero io mi aspettavo prima di tutto di vedere un esperto di processi ambientali. Il tecnologo poteva diventare il direttore generale di un ramo, per esempio quello del risparmio energetico. Insomma non è stato affidato tutto a un “medico”, ma a un “farmacista” che prepara soluzioni, che mi dà una medicina, ma prima serve sapere quale è la causa della malattia. Al limite avrei visto meglio Enrico Giovannini alla transizione ecologica, perché è uno studioso di problemi ambientali. Anche se è un economista da tanti anni si occupa di economia sostenibile. Io avrei messo Cingolani ai trasporti. Detto questo aspettiamo di vedere i risultati.

Nel suo nuovo libro Salire in montagna ha raccontato una storia personale, la scelta di andare a vivere in montagna. Questa crisi può essere anche l’occasione per recuperare delle aree interne abbandonate e il patrimonio architettonico e la socialità nelle aree spopolate di montagna?
Io sono partito da una forma di adattamento al cambiamento climatico, visto che nulla si muove. L’Italia è ricchissima di simili territori, il 70 per cento del territorio nazionale è fatto di aree interne, di collina e di alta di montagna. Rappresenta una splendida opportunità per alleggerire la pressione sulle zone di pianura e recuperare tutte queste aree che languono dimenticate, depresse, marginali. Grazie alla connettività lo smart working è diventato la normalità per tante categorie, allora io credo che la montagna possa rappresentare un buono sfogo per una parte della popolazione: sfuggire al riscaldamento globale e al contempo rivitalizzare zone destinate all’oblio.

Ma al contempo, bisognerebbe pensare anche a misure importanti come la bonifica della Pianura padana?
Certo, questo rientra in tutte le azioni da fare per arrestare la cancrena. Bisogna comunque farle, non puoi dire “abbandoniamo certi territori, si salvi chi può” oppure “chi se lo può permettere vada in montagna a guardare dall’alto la distruzione di altre aree”.
Purtroppo larghe aree, come la Pianura padana e l’agro romano, sono state compromesse in modo irrimediabile. Si tratta di fermare il danno e dove possibile pian piano operare una ricucitura. Pensi solo al problema dei rifiuti o delle aree industriali dismesse. Questo però ricade naturalmente nella scelta politica, che deve cambiare completamente. Ma non si riesce a fare nemmeno con l’Ilva. Siamo qui che ci giriamo attorno da dieci anni. Le scelte sono molto semplici. Quando mettiamo in conflitto soldi, posti di lavoro e ambiente, purtroppo vincono sempre i primi, i secondi arrivano così così, e l’ambiente è l’ultimo, non vince mai. Quando c’è sul piatto questa scelta, ci rimette sempre la salute.

Con la pandemia finalmente si è cominciato a dare più ascolto alla scienza oppure è una illusione?
Lo spettacolo che abbiamo visto non è stato ottimale. Invece di dare fiducia alle persone spesso hanno creato smarrimento. Perché sulla pandemia la scienza stava imparando sul campo cose che non conosciamo. Ancora oggi ad un anno di distanza questo virus è appena appena abbozzato nella sua carta di identità. Purtroppo c’è stata una cattiva comunicazione perché nei vari talk show ognuno cercava di estorcere all’esperto una opinione su un tema che non è ancora consolidato e questo ha creato grande confusione. Ci sono altri settori in cui è più facile. Lo stesso consumo di suolo o i cambiamenti climatici sono ambiti di studio molto più consolidati. Le nostre comunità scientifiche sono molto più omogenee perché si studia da 50 anni questo problema. Poi ci sono i negazionisti, ma questo è un altro discorso. Riguardo alla pandemia tra virologi e medici ci sono opinioni diverse perché la ricerca dei dati è ancora in corso. Se lei invece chiede a un climatologo gli scenari del clima del futuro, i dati sono quelli, non c’è più uno che abbia una opinione differente. Siamo tutti purtroppo preoccupati.

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L’intervista è stata pubblicata su Left del 26 febbraio – 4 marzo 2021

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SOMMARIO

Direttore responsabile di Left. Ho lavorato in giornali di diverso orientamento, da Liberazione a La Nazione, scrivendo di letteratura e arte. Nella redazione di Avvenimenti dal 2002 e dal 2006 a Left occupandomi di cultura e scienza, prima come caposervizio, poi come caporedattore.