Ne “La preistoria è donna” Patou-Mathis decostruisce il paradigma dell’uomo preistorico bellicoso cacciatore e della donna solo dedita alla prole. «Non c’è prova archeologica che escluda la partecipazione femminile alle attività sociali e culturali nel Paleolitico»

Perché nel mondo accademico, e non solo, si fa così tanta fatica ad accettare che le donne possano aver dipinto nel paleolitico? Perché per alcuni studiosi l’idea stessa di un’artista di sesso femminile risulta inconcepibile? E ancora: perché antropologi e studiosi costruendo fin dai tempi più antichi un paradigma di divisione del lavoro fra uomini e donne hanno assegnato agli uomini il ruolo di inventori e innovatori creativi e alle donne un ruolo “solo” di accudimento, in quanto sarebbero dipendenti e passive? Perché nella storia si sono incontrate tante resistenze nel riconoscere che le donne hanno contribuito come gli uomini all’evoluzione dell’umanità? Queste e altre domande cruciali innervano il libro della paleontologa Marylène Patou-Mathis La preistoria è donna, una storia dell’invisibilità delle donne, appena pubblicato in Italia da Giunti. Un volume che indaga le radici culturali della millenaria negazione dell’identità della donna di cui la studiosa parigina rintraccia i primi segni proprio negli scritti di quegli scienziati che, studiando il Paleolitico, hanno inventato un paradigma «conforme al modello patriarcale di divisione rigida dei ruoli tra i sessi».

Nell’Ottocento quando una scienza giovane come lo studio della preistoria cominciò a farsi largo i primi pionieri ebbero il coraggio di esplorare un campo nuovo ma lo fecero con lenti alterate dall’ideologia e dalla mentalità della loro epoca. E se è vero che proprio allora le teorie mediche cominciavano ad affrancarsi dai testi sacri, l’ideologia religiosa era dura a morire così «alla idea dell’inferiorità dell’ordine divino a cui erano soggette le donne si aggiunse un’inferiorità per natura, perché – ricostruisce Patou-Mathis – secondo gli studiosi di allora la realtà anatomica e fisiologica delle donne conferiva loro temperamenti e funzioni specifiche».Religione e ragione positivista andarono perfettamente a braccetto annullando la creatività delle donne in quanto artiste che per molti secoli sarebbero poi completamente sparite dal racconto della storia dell’arte. Nel nostro piccolo abbiamo cercato di argomentare questa tesi nel libro Attacco all’arte, la bellezza negata (L’Asino d’oro, 2017), individuando nei monoteismi e nell’astratto razionalismo dei filosofi antichi le radici di una micidiale misoginia che allunga la sua ombra anche sul presente come drammaticamente constatiamo ogni giorno. Anche la paleontologa Marylene Patou-Mathias, come già la studiosa di diritto antico Eva Cantarella nei suoi molti libri, ripercorre e addita le responsabilità di Platone e di Aristotele, per i quali la donna era un maschio incompiuto e al più mera matrice materiale di progenie. E molto spazio dedica alla denuncia della violenza che i monoteismi hanno sempre esercitato sulle donne, come si evince dai testi sacri dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’Islam e, per quanto ci riguarda più da vicino, nelle lettere di Paolo di Tarso, nella patristica e nella dottrina. Molto interessante è anche che la direttrice del Centre national de la recherche scientifique (Cnrs) individui nella nascente psicoanalisi dell’Ottocento una cassa di risonanza di questi antichi pregiudizi che condannavano la donna come essere inferiore rispetto all’uomo (in quanto secondo la Bibbia nata da una costola di Adamo e responsabile del peccato originale).

In Mosè e il monoteismo (Newton Compton, 2010) Freud ipotizzava un immaginario matriarcato preistorico che sarebbe poi stato rimpiazzato da un superiore patriarcato. E ne scriveva in questi termini: «Questo passaggio dalla madre al padre designa una vittoria della spiritualità sulla sensibilità, dunque un progresso di civilizzazione». (sic!)

Che sia scientificamente corretto parlare di società matrilineare riguardo al Paleolitico e non di matriarcato è un fatto condiviso da molti studiosi oggi, ma non è tanto su questo che si appunta la riflessione di Patou-Mathis quanto sulla pervasività e persistenza dell’esaltazione di un violento modello patriarcale che forse – questa è la tesi della studiosa francese – non si era ancora strutturato nel paleolitico superiore ma era invece nella mente di quegli studiosi che crearono l’archetipo dell’uomo preistorico armato di clava, che trascina la donna per i capelli, bellicoso, campione di machismo e di stupro. Ma l’uomo preistorico era davvero così, si domanda Patou-Mathis? Se stiamo ai reperti archeologici e alle rappresentazioni pittoriche del Paleolitico superiore non troviamo molte tracce di guerra. Piuttosto, come ipotizza la paleontologa poiché nella preistoria gli esseri umani vivevano in piccoli gruppi, la collaborazione, lo scambio e l’aiuto reciproco era forse più importante per la sopravvivenza dell’aggressività e della competizione.

Resta il fatto però che quel paradigma dell’uomo preistorico è arrivato fino a noi propalato da cinema, letteratura e cartoni animati, ma si è diffuso anche nel mondo accademico, tanto che ancora nel 1961 antropologi e studiosi della preistoria affermavano che noi saremmo discendenti di presunte scimmie assassine. Le radici di tutto ciò, come accennavamo, affondano nella mentalità ottocentesca, quella lombrosiana in particolare e trovò spazio nelle grandi esposizioni universali, nei circhi equestri in cui venivano mostrate in gabbia veneri nere. «Fino alla fine dell’Ottocento la produzione artistica e letteraria ha proposto, tranne rare eccezioni, l’immagine di uomini primitivi violenti. Privi di comportamenti sociali, considerati inclini all’omicidio e al cannibalismo», fa notare Marylene Patou-Mathis, aggiungendo: «Nella maggior parte dei romanzi ispirati ai racconti degli esploratori i conflitti sono continui in particolare fra razze diverse». Ma come oggi sappiamo molto più probabile furono invece coesistenza e ibridazione fa Neanderthal e Sapiens. A costruire questo stereotipo dell’uomo preistorico massimamente misogino molto concorse l’idea biblica, fatta propria e teorizzata da filosofi come Hobbes che la violenza fosse innata nell’uomo. Come ci ricorda Patou-Mathis è quanto sostiene Freud ne Il disagio della civiltà (Bollati Boringhieri) quando scrive: «L’uomo non è affatto una creatura mansueta, bisognosa di amore… egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale aiuto o un oggetto sessuale, ma anche un oggetto su cui sfogare la propria aggressività». Ma se studiamo i reperti della preistoria con occhi sgombri da filtri ideologici e religiosi non troviamo testimonianze di quanto scrive Freud. «I primi segni di violenza collettiva – afferma Marylene Patou-Mathis – sembrano comparire con la sedentarizzazione delle comunità che comincia circa 14mila anni fa e si sviluppa nel corso del Neolitico, periodo segnato da numerosi mutamenti ambientali (riscaldamento climatico) economici (domesticazione delle piante e degli animali), sociali (comparsa delle élite e delle caste, con il loro corollario, la gerarchizzazione e le disuguaglianze) e delle credenze (comparsa delle divinità e luoghi di culto)». «Si è constato – aggiunge – che le donne e i bambini ne furono le prime vittime».

Il che non significa ovviamente che la preistoria fosse un’età dell’oro priva di conflitti, ma molti indizi portano a pensare che vi fosse una organizzazione sociale relativamente egualitaria e poco bellicosa e che soprattutto, pensiamo noi, vi fosse un modo di auto-rappresentarsi attraverso l’arte che non si basava sul conflitto distruttivo al di là della realtà materiale certamente durissima in quei tempi lontani. Forse i nostri antenati più antichi non avevano perso l’immagine interna? Forse, donne o uomini che fossero, non avevano distrutto dentro di sé l’immagine femminile? Sono domande che lasciamo in sospeso aspettando la risposta di chi, antropologi, psichiatri e psicologi ne sa più di noi. Volendo aprire un dibattito più ampio ci limitiamo qui a riportare quel che ci propone Patou-Mathis attraverso lo studio dell’arte del Paleolitico superiore che abbonda di statuette femminili, le famose Veneri, e di simboli stilizzati di vulve, ma anche di mani femminili stampate a mo’ di firma vicino alle rappresentazioni pittoriche. Ne La preistoria è donna Marylene Patou-Mathis argomenta la sua tesi supportata da una corposa bibliografia, arrivando a scrivere: «La violenza delle società preistoriche del Paleolitico non è archeologicamente attestata, è probabile che le relazioni tra uomini e donne in quel periodo non fossero così conflittuali come è sostenuto da alcune tesi. Il predominio sulle donne risulterebbe più recente e conseguenze all’instaurazione del sistema patriarcale, talvolta imposto con la violenza, e in particolare con il potere sul corpo (e sulla mente, aggiungiamo noi, ndr) della donna». La volontà di possedere l’altro senza il suo consenso ricorda la studiosa, si riscontra in numerosi miti, in cui le donne vengono violentate dopo essere state rapite. «Proprio come la cultura della guerra, la cultura dello stupro s’inserisce molto presto nelle raffigurazioni. È forse per questa ragione – si domanda la studiosa – che da secoli si tollera la violenza sulle donne?».


L’articolo prosegue su Left dell’1-8 ottobre 2021

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