La tragedia del 9 ottobre 1963 non ebbe nulla di naturale. La morte di quasi duemila persone in 4 minuti, la distruzione di interi paesi e la devastazione del territorio furono dovuti al «comportamento degli imputati», che era «in linea con la civiltà industriale»

Lasciando Longarone lungo la Strada regionale 251 ci si inerpica su un massiccio delle Prealpi carniche che oggi ospita uno dei più bei parchi naturali d’Europa, varcando il confine del Friuli con il Veneto. In automobile ci vuole mezz’ora per superare lo stesso balzo che il 9 ottobre 1963 un’immane massa d’acqua percorse in direzione opposta in appena quattro minuti, spazzando via interi paesi, sei chilometri di ferrovie e strade, e quasi 2mila persone. In quota, la 251 piega a sinistra e si getta dentro la montagna, attraverso una galleria scavata nella roccia e costellata di aperture che affacciano sulla Forra del torrente Vajont.

Ancor prima di uscirne, la vista della diga, integra, mastodontica, cattura fin quasi a distrarre dalla guida. È ancora lì, sormontata da un camminamento protetto la cui unica funzione è oggi consentire le visite di gruppi di turisti. Fra le guide ci sono anche discendenti delle vittime di quello che è ancora ricordato come uno dei più grandi disastri della storia d’Italia. Dall’altra parte della strada, le pareti per fare arrampicate, rese celebri dallo scrittore e alpinista Mauro Corona. Verticali, come quasi tutto, quassù. Quando si esce dalla galleria il mondo è cambiato: la montagna sulla destra ha alberi radi, il terreno è smottato, il profilo appare innaturale. È la frana. Proprio come la diga, è ancora lì. Alle sue spalle, l’immensa ferita del Monte Toc dal quale la massa si è staccata, a deturpare la straordinaria bellezza di una delle zone altrimenti più incontaminate d’Italia, le Dolomiti friulane, sorelle minori di quelle più blasonate di Veneto e Trentino.

Quando nel 1959 fu completata, con i suoi 261 metri di dislivello fra il piano di coronamento e le fondazioni, la diga a doppio arco del Vajont era la più alta del mondo. Un vanto per la Sade – Società adriatica di elettricità (ente privato destinato a confluire nell’Enel qualche mese prima del disastro) che aveva così realizzato il progetto che l’Ingegner Carlo Semenza accarezzava sin dal 1925, in una terra così ricca d’acqua da essere stata oggetto di sfruttamento idroelettrico fin dall’inizio dell’era industriale. Centosettanta ettari di terreno, case espropriate e famiglie sfollate con indennizzi ridicoli, a Erto e a Casso, in nome dell’opera classificata “di interesse nazionale”, per creare un serbatoio di 150 milioni di metri cubi d’acqua nell’angusta valle in cui scorre uno delle centinaia di torrenti della Valcellina, il Vajont. In pochi mesi l’essere umano sovverte così il…


Il reportage prosegue su Left dell’8-14 ottobre 2021

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