La regista afgana, che è riuscita a mettersi in salvo all’arrivo dei talebani, racconta come è nato il suo film “Orphelinat”: «È uno sguardo sull’Afghanistan e sul suo passato che ho rivissuto adesso. La storia si ripete». E aggiunge: «Le afgane sono state lasciate completamente sole. La storia dei “diritti delle donne” per loro è una beffa»

L’incontro con Shahrbanoo Sadat è al termine della proiezione del film Orphelinat al Festival di Villa Medici a Roma. La nota regista è riuscita a fuggire con alcuni membri della sua famiglia da Kabul, dopo l’insediamento dei talebani nella capitale. Di passaggio a Roma, si recherà ad Amburgo, dove risiede ed ha la sua casa di produzione, ma ci racconta qualcosa del suo lavoro, dei suoi sentimenti, del suo Paese.

Orphelinat è del 2019, ci può raccontare come è nata l’idea di questo film che ad oggi non ha perso nulla della sua freschezza ed intensità?
Ho realizzato Orphelinat nel 2019, ma il progetto risale al 2014 con due stesure di sceneggiatura, che precedono il mio film d’esordio Wolf and sheep del 2016 (Act Cinema Award alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes del 2016, ndr). Ero rimasta colpita dalla vicenda sin dal 2011, quando il carissimo Anwar Hashimi la condivise con me, parlandomene in modo dettagliato. Dopo si è messo a scrivere 800 pagine, che ora siamo in procinto di pubblicare. Ebbene, quella storia mi ha colpito in un modo…. Non può capire quanto sia stato emozionante! Innanzitutto il modo di scrivere era semplice, bello, onesto, politico e personale al tempo stesso. Seconda cosa, era uno sguardo sul passato dell’Afghanistan, un passato che io non conoscevo. Terzo aspetto, ogni cosa avvenuta allora era molto simile a ciò che stava accadendo di fronte a me. A quel punto, ho compreso che era quello il film che dovevo fare e l’opera mostra contiguità e contatti anche con quello che oggi sta vivendo il mio Paese. Alla Quinzaine des Réalisateurs ricordo che parlai del ridicolo progetto di pace che gli Stati Uniti stavano imbastendo con i talebani e nessuno capiva di cosa parlassi. La storia si ripete nel tempo. Ecco perché è importante conoscere il passato.

Che tipo di lavoro ha fatto sulla sceneggiatura e con i suoi giovani attori?
È stata una sfida scrivere la sceneggiatura. Avevo le 800 pagine di Anwar di fronte a me e dovevo farle diventare un film. Anwar ha vissuto in un orfanatrofio sovietico per circa otto anni. Un numero incredibile di luoghi, nomi, eventi. Io dovevo concentrarmi sul rendere il tutto più semplice e breve. Così ho preso la storia di Anwar e ho cercato di farla mia in molti modi. Il mio film non è completamente basato sul lavoro di Anwar, ma al suo lavoro si deve molta dell’ispirazione che lo sostiene come ho scritto nei credits. Quanto ai ragazzi, diciamo che è stata la…


L’articolo prosegue su Left dell’8-14 ottobre 2021

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