I ragazzi devono potersi prendere il loro tempo per studiare. Importante è la conoscenza, non l’acquisizione di competenze. «La scuola deve sostenere il libero sviluppo della personalità degli studenti», dice lo storico Adriano Prosperi

Lorenzo Parelli è morto sul luogo di lavoro quando, come tutti i ragazzi della sua età, avrebbe avuto tutto il diritto di starsene in classe a studiare. Tanti studenti sono scesi in piazza a Roma, Milano, Torino, Napoli, per manifestare, per denunciare che la sua morte, inaccettabile, non è stata una fatalità e che l’alternanza scuola lavoro deve essere abolita. Ma sono stati pesantemente caricati dalla polizia. Cosa sta succedendo in questo Paese che non dà futuro e sicurezza ai giovani ma li prende a manganellate? Come è potuto accadere? È la non facile domanda che abbiamo rivolto allo storico Adriano Prosperi, professore emerito della Normale di Pisa che per la scuola come luogo di libera formazione si è sempre impegnato molto. A questo tema ha dedicato anche ampia parte dell’appassionato libro Un tempo senza storia (Einaudi) che ha suscitato molto interesse, non solo fra gli specialisti. «Purtroppo con i libri non si cambia il mondo, lo si cambia con la lotta», accenna il professore. «E rispondere alla morte di Lorenzo, che è un fatto lacerante, significa prendere atto che siamo arrivati al punto che i ragazzi, messi nelle mani della scuola, vengono sfruttati in fabbriche che approfittano di forme di alternanza scuola lavoro e di tirocini gratuiti per far risparmiare ai padroni qualche soldo. Quello che vedo – approfondisce Prosperi – è che si cerca di fare di questi ragazzi dei robot. È la ferocia del neoliberismo che tipicamente si esprime in modo impersonale. Quanto meno il vecchio padrone delle ferriere era un essere umano che vedeva qualche altro essere umano. Ora guardano solo i loro rendiconti annuali. Lorenzo è morto perché non c’era con lui la persona che doveva sostenerlo, sorvegliarlo, proteggerlo. Ed è una morte che deve scuotere le coscienze».

«Non è scuola e non è lavoro» dicono dell’alternanza scuola lavoro gli studenti. Che ne pensa?
Le ragazze e i ragazzi affidati alla scuola perché siano formati e maturino intellettualmente vengono deviati su un binario sbagliato, quello dell’avviamento al lavoro subordinato su cui grava l’antica maledizione della dipendenza servile. E così accade allo studente di morire di lavoro, una maledizione sociale che condivide coi lavoratori italiani. Le deficienze della scuola superiore sono state mascherate con meccanismi della vecchia scuola di avviamento al lavoro. Questo fa sì che i giovani lavorino gratis nelle fabbriche. Non è assolutamente accettabile. La scuola deve promuovere la libera formazione, la libera crescita della personalità.

Una sua contro proposta?
Dobbiamo sciogliere questo vincolo e sostituirlo con qualcosa di più produttivo: dopo le ore che ha passato a scuola, il giovane potrebbe trascorrerne altre in luoghi di alta cultura, in centri di ricerca per apprendere come la scienza va avanti. Tra i 14 e i 18 anni i ragazzi hanno una potenzialità intellettuale straordinaria, possono imparare molto, tanto più oggi. La loro formazione universitaria potrebbe iniziare prima.

Cosa lo impedisce?
Tutti i problemi di un Paese che ha cessato di investire sulla scuola, che anzi ha tagliato alla cieca, che manda i giovani in aule non adeguate, dove i tetti crollano, dove non ci sono biblioteche, dove gli insegnanti sono sotto pagati. Assistiamo a cambiamenti profondi e a fenomeni innescati anche dal mondo della rete che abitua a raccogliere informazioni non validate. A fronte di tutto questo la scuola è stata depauperata, ha subito colpi molto gravi. Penso per esempio alla crisi del 2008 quando hanno tagliato i fondi massicciamente. Penso al precariato su cui si regge la scuola, al blocco dei concorsi. Alla formazione continua che dovrebbero fare gli insegnanti e a cui non si pensa più.

Ma c’è il bonus cultura…
È una presa in giro, il problema vero è quello della formazione. Un insegnante dopo 30 anni di insegnamento è logorato, se non trova il respiro per dedicarsi all’aggiornamento – cosa che accedeva nell’Italia del secolo scorso. Dovrebbero potersi recare in luoghi di cultura, dove poter fare ricerca, rinfrescarsi.

In questo immobilismo è impantanato il ministro Patrizio Bianchi?
Il ministro finge che le cose siano andate bene nell’universo scolastico tanto da indire un esame di maturità con ben due scritti. Non sono andate bene invece le cose della scuola negli anni della pandemia e noi rischiamo di penalizzare i più fragili. In vista di questo nostro incontro ho riletto Nello specchio della scuola (Il Mulino), il libro che Bianchi ha pubblicato nel 2020: è pieno di considerazioni, se vogliamo, anche condivisibili. Ripercorre la storia, ci pone davanti alle statistiche, per ribadire che il problema della scuola è primario. Ma se questa è l’opinione del ministro, non si direbbe che questa sia la visione del governo Draghi e dei precedenti governi che si sono sempre espressi sull’importanza della scuola, ma non hanno mai fatto niente di concreto.

C’è anche chi propone la riduzione del corso di studi delle superiori a quattro anni.
Lo fa lo stesso ministro Bianchi nel libro che citavo. Si taglia la scuola di libera formazione per che cosa? Come accennavo si rischia di incoraggiare il mondo dell’industria e del capitale a sfruttare i giovani inserendoli nel sistema produttivo con funzioni servili.

Il ministro Bianchi sostiene anche che nella didattica a distanza ci siano aspetti positivi che andrebbero sviluppati.
Riconoscimenti alla Dad non sono tollerabili perché rivelano l’intenzione di ricorrervi anche oltre il Covid per mascherare e rendere incancrenite le piaghe di questi anni. La Dad può essere utile nel rapporto burocratico di ministeri e sedi di articolazioni amministrative o di gestioni di aziende. Niente può sostituire la parola viva del dialogo di insegnamento dove il docente deve far parlare le ricchezze della cultura e del sapere in modo da appassionare i giovani in un incontro ricco e stimolante, suggerendo i campi dove cercare risposta alle domande fondamentali dell’età in cui ci si apre al mondo. Dando loro strumenti critici contro le fake news diffuse dalla scuola impersonale, stupida e incontrollabile della rete.

Gli studenti sono scesi in piazza con cartelli con cui rivendicano il proprio diritto alla conoscenza e non solo alla competenze. È un messaggio importante?
Importantissimo. Questa tendenza a arricchirli di competenze, di capacità funzionali in realtà è una specie di cavallo di Troia attraverso il quale si sostituisce la formazione di una cultura aperta dello studente con l’addestramento a rispondere perfettamente a quello che gli viene richiesto. Vengono valutati con test fatti a domande a crocette. Ci sono tre risposte e devi sceglierne una. Una mia nipotina al posto delle tre domande ne ha aggiunta una propria e ha preso un brutto voto. Questo per dire che trovare esattamente la spina dove devi inserire il tuo filo è cosa diversa dall’immaginare un mondo differente; è cosa diversa dall’essere aperto alle molte possibilità della realtà. In genere gli studenti sono molto più ricchi di risposte dei loro docenti e soprattutto non devono essere addestrati all’obbedienza, questo è un modo per creare la Metropolis del futuro, in cui ci sono i robot. Ma qui i robot sono stati sostituiti dagli esseri umani.

La scuola in Italia è stata, oltreché uno strumento di alfabetizzazione, anche di coesione sociale, ha ancora questa funzione?
Nella scuola si è formata una coscienza collettiva. L’Italia aveva lingue e culture diversissime. È arrivata all’Unità senza coinvolgere nella rivoluzione nazionale le classi subalterne e contadine. La legge Casati, l’avvio della scuola per tutti furono l’inizio di un cambiamento, pur zoppicando, perché non era facile contrastare una realtà sociale che non permetteva alle classi lavoratrici di mandare i figli a scuola, dal momento che era possibile impiegarli nel mondo del lavoro subito. Importante fu la lotta contro il lavoro minorile. Oggi negare l’accesso al sistema scolastico a chi non ha la cittadinanza significa tagliarsi le gambe per la formazione del Paese di domani.

Di questi temi lei si è occupato nel libro a più mani La scuola interrotta (Ets) promosso da insegnanti.
Tutto è cominciato per iniziativa di un gruppo di docenti di Casalecchio di Reno che hanno raccolto documenti e riflessioni. Ne è nato un volume a cura del Presidio primaverile per una scuola a scuola. Ho collaborato anche io ricordando il ruolo che ha avuto la scuola nella costruzione di un orizzonte collettivo in un Paese come l’Italia che è arrivato tardi all’unità nazionale e alla rivoluzione industriale, che ha pagato questo ritardo con l’interruzione della legalità, con la dittatura, con le leggi razziali, con pesanti macchie della fedina collettiva. Impoverire la scuola vuol dire ricreare le condizioni di questo arretramento.

Episodi violenti come quello del bambino ebreo insultato e aggredito a Venturina da adolescenti razziste ne sono una spia?
È un fatto inaccettabile e da non sottovalutare. Il punto è come nascono queste cose. Come diventano normali? Pensavamo di vivere ormai in una cultura aperta, antifascista, che Livorno e il suo territorio ne fossero espressione. E invece non c’è un posto sicuro. Tutto questo si combatte sul terreno della scuola. Agli inizi del mio percorso ho insegnato in un liceo, parlo di sessant’anni fa: i problemi che emergevano nelle riunioni dei docenti erano quelli drammatici delle famiglie operaie, dei figli che crescevano sulla strada, del rischio della droga, e la scuola se ne faceva carico; i docenti si facevano avanti con il personale sanitario per affrontare le questioni. Ora né le scuole né le Asl hanno il personale per farlo. Eppure in questi due anni di pandemia la società ha aggravato i suoi problemi, sono aumentate le disuguaglianze, si sono allentati i legami sociali, le famiglie impoverite sono rimaste chiuse in casa, senza neanche la libertà per i ragazzi di andare a scuola.

C’è un problema di ignoranza ma anche di negazione della storia? In Un tempo senza storia lei denuncia gli insulti alla senatrice Segre, il rigurgito di prodotti culturali apologetici di Mussolini, mentre le destre strizzano l’occhio a gruppi che si definiscono fascisti del XXI secolo…
Il problema è gravissimo, la scuola era rimasta l’unico agente collettivo in Italia dopo la scomparsa dei partiti di massa che veicolavano una certa cultura, una certa memoria, una certa tradizione, come ha scritto benissimo Eric Hobsbawm. È scomparsa la prospettiva del cambiamento radicale della società che quei partiti proponevano combattendo le profonde radici che il fascismo, il razzismo avevano nel corpo collettivo della nazione. Scomparso tutto questo, si è perduta la memoria collettiva. Non è stata sostituita dalla scuola che è stata monopolizzata da pedagogisti che hanno diffuso precetti, regole, comportamenti svuotando però la materia formativa e marginalizzando la storia.

Fino a proporre di abolire, in tempi recenti, la traccia di storia alla maturità?Facciamo un passo indietro: noi abbiamo ereditato dal primo Novecento e dalle lotte sociali l’idea di una struttura dell’insegnamento in cui il tronco era la storia. Tutte le altre discipline erano articolate in senso storico: c’era una storia del pensiero filosofico, c’era una storia della letteratura, c’era una storia dell’arte. Tutte facevano riferimento a questo asse portante della storia che veniva insegnata come storia politico-sociale, come storia della civiltà, sulla quale si innestavano le altre forme di sapere e di cultura. Questo albero è stato segato alla radice e ci si è limitati a dire che i programmi dovevano coprire il Novecento. Ma quasi nessun docente ci arrivava di fatto, salvo saltare altre parti del programma. Poi, più di recente, si è arrivati a proporre di abolire la traccia di storia. Imparare a scrivere, ad esprimere un proprio pensiero, a misurarsi con le domande che riguardano la storia contemporanea è fondamentale. C’è stato un vero abbandono, una corsa all’indietro che non poteva non fare danno, anche perché quello spazio è stato sostituito e riempito dalla formazione che si fa attraverso la rete e sappiamo benissimo che non è uno strumento neutro, è percorsa da bande organizzate, finanziate, che fanno sì che due adolescenti possano pensare che esista l’ebreo in quanto essere diverso e che lo si possa torturare. Ripeto, è un fenomeno da non sottovalutare. Il razzismo fascista non fu colpa di pochi come invece alcuni storici hanno cercato di sostenere.

Perdita della memoria collettiva, ignoranza della nostra storia e oblio formano un mix particolarmente pericoloso anche oggi?
Il mio libretto, Un tempo senza storia, ha riscosso reazioni negative da parte di alcuni storici tedeschi che sostengono l’importanza di dimenticare. Ma dimenticando si arriva a documenti come quella risoluzione votata dal Parlamento europeo nel 2019 che è piena di balle: vi è scritto che furono i combattenti occidentali democratici a liberare i campi di concentramento, quando tutti doverebbero sapere che a Auschwitz i primi ad arrivare furono i russi. È terribile che il Parlamento abbia approvato un documento di questo genere e nessuno lo ha veramente contestato. In questo modo costruiscono l’ideologia che, a loro avviso, deve sostenere questa Europa così debole, così fragile, così assente, legata solo alla ricchezza dei traffici commerciali. Il problema dell’assenza della storia, come si vede, non è un fatto minore e non basta neanche reintegrare la traccia di storia per risolverlo, bisogna ripensare profondamente i danni di una pedagogia dalle buone intenzioni e dalle nefande conseguenze, che si impose con l’iter della riforma Berlinguer.

Abbiamo da poco celebrato il giorno della memoria, è importante, ma certo non basta?
È un giorno di ricordo per 365 giorni di dimenticanza. Non serve a niente. Non è con questi pannicelli caldi che si risolve il problema di una presa di coscienza della realtà che abbiamo alle spalle. La nostra civiltà è stata interrotta da qualcosa che non era l’arrivo di quattro briganti al potere, come storici malintenzionati hanno cercato di sostenere. Pensiamo a quando De Felice scrisse su commissione un libro su ebrei e fascismo negando che esistesse un nazismo fascista. Lui ed altri hanno modificato la realtà a loro piacere in funzione propagandistica. In realtà con le leggi razziali il fascismo riuscì addirittura a battere in velocità i nazisti e a offrire loro un modello. E sappiamo quante vittime tutto questo abbia causato. Ci vuole ben altro che un giorno di memoria. Tuttavia, al tempo stesso, cancellare la giornata della memoria sarebbe percepito come un segno di ulteriore abbandono. Ciò che servirebbe davvero sono forme di educazione permanente per insegnanti, per studenti, per cittadini basate sullo studio della storia come costruzione severa e autentica non su fake news. Certo, è molto difficile scoprire la verità in un contesto in cui la capacità di inganno è così potente e grande. Ma è una sfida essenziale.


L’articolo prosegue su Left del 4-10 febbraio 2022 

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